Spettacolo
Teatro dell’Opera – Apertura della stagione di Caracalla 2017
(foto Yasuko Kageyama)
Carmen messicana e generosa
Arriva Carmen a Caracalla per aprire la stagione estiva, la più internazionale e la più affollata del Teatro dell’Opera. E la novità di questa messa in scena colpisce nel profondo. Certo, è ormai una costanza la libertà con la quale i registi si appropriano di un’ opera cercando di modernizzare, attualizzare, ricomporre in un mosaico nuovo epoche e location, alla ricerca di un’idea. Non sempre il risultato è apprezzabile, ma a volte, come in questo caso, risulta profondamente affascinante.
Non diversamente per questa Carmen di Bizet, affidata alle scelte dell’argentina Valentina Carrasco. Carmen è l’Amore, anzi l’assoluto in amore, attraverso il canale sempre aperto della ricerca di libertà, nella piena consapevolezza del destino. L’amore è un altare del sacrificio che, una volta consumato, rinasce con più esigenze alla ricerca della propria totalità. Questa è Carmen, la Carmencita, la zingara, la sigaraia, la contrabbandiera, l’amante. Carmen ha un fiore sorcier, rosso come l’amore e la morte, l’unica che la sua cultura gitana ha in programma, morte di coltello e di sangue versato. Carmen, che Bizet ha voluto come un simbolo di una Spagna moresca, tra i bastioni di Siviglia.
Bizet aveva dato l’incarico del libretto a due autentici maghi di testi per il teatro: Henry Meilhac e Loudovic Halévy, scrittori prediletti da Jacques Offenbach, che in quell’ultimo scorcio di secolo stava spadroneggiando a L’Opéra Comique di Parigi. I due arricchirono l’omonimo racconto di Prosper Merimée che aveva dato vita letteraria a Carmen 30 anni prima, con personaggi a contrasto o di contorno: Escamillo e Micaela, per primi, deboli e psicologicamente un po’ caricaturali. Escamillo, il toreador tronfio e impettito prende su di sé l’imperio oleografico del racconto, fissandolo in terra andalusa; Micaela, leziosa e manichea nella sua scontata bontà.
La Spagna di Bizet, in questa edizione di Caracalla che privilegia l’aspetto sociale dell’opera si è trasferita nel tormentato confine USA/Messico, che conosce da decenni la piaga di una massiccia migrazione illegale. E mentre i maestosi ruderi romani si illuminano di videoproiezioni di saguaros, delle canyon dell’Arizona, dei volti dei presidenti del monte Rashomon, come poi, nel secondo atto, delle salsole che rotolano su un palcoscenico che dà l’idea della secchezza del deserto, l’affollata fiesta andalusa diventa un mercatino di parafernalia in cui tutto avviene in una pittoresca confusione, dove ragazzini, manolas, soldatini, travestiti in minigonna e barba nera circolano per le bancarelle variopinte assieme ad una Micaela country con stivaletti di vacca, mentre si attende l’uscita dalla fabbrica di tabacchi delle operaie e di lei, la più bella e focosa, Carmen, che se ne arriva vociante e sporca di fango indossata da Veronica Simeoni, stretta in un pantaloncino al ginocchio aderente che mette bellamente in mostra le sue forme opulenti. Passionale, moderna, femmina, Carmen balla abbarbicata al palo della lap dance e canta con voce ferma forse dal volume contenuto ma dall’ottima intonazione e con carica di sensualità seduttrice. Obiettivo è lui, don Josè, Roberto Aronica, che ha voce ben timbrata e colore caldo, forse, però, dall’aspetto troppo maschio per disegnare il bravo soldatino, insicuro e un po’ mammone, che non sa resistere all’uragano di passione che la femmina seduttrice gli sciorina davanti e che lo trasforma in un criminale, dopo essere stato toccato dal fiore magico della zingara. Vette di purezza e limpidezza per Rosa Feola, una realtà della lirica di oggi, puntuale sempre, qui una ragazza coraggiosa e candida, che sa difendere se stessa e il proprio futuro sposo. Escamillo è Fabrizio Beggi, dalla bella voce sonora, compiaciuto di sé quanto occorre al personaggio e abbastanza attore.
A Jesús López-Cobos l’incarico di imbastire il tessuto sonoro, lui, forte di una raffinata cultura musicale, dirige l’orchestra con l’eleganza francese bizetiana pur non mancando di sottolineare e sostenere le voci/personaggi e ridare loro quella vita fittizia che solo l’eternità del palcoscenico può assicurare. Il momento più eclatante di tutta la rappresentazione è certamente il sorprendente finale, dove il folklore messicano diventa protagonista assoluto, nella sua trionfale festa del Dia de Muertos, una tradizione sincretica fra celebrazioni azteche e riti cristiani, che la regista ha voluto simbolizzare in una coreografia (firmata da Erika Rombaldoni e Massimiliano Volpini) di ballerini scheletri, mentre le colonne di Caracalla diventano una esposizione di morti, e il palcoscenico è occupato da un cranio calcinato di toro dalle corna enormi, un’ambientazione perfetta per la morte ritualizzata di Carmen, che sulla scena avviene con un coup de théâtre, il toro dorato posato sulla torre sulla quale si è inerpicato Escamillo viene ucciso simbolicamente da un colpo di spada e dalla sua testa decapitata scivolano nastri rosso sangue.