Spettacolo

Accademia di Santa Cecilia – Requiem di Verdi con Daniel Oren

Suoni Michelangioleschi

Roma, 4 dicembre 2019 – Torna all’Auditorio del Parco della Musica Daniel Oren, giustamente celebrato direttore d’orchestra con una passione per la lirica. Viene a proporre con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia il “Requiem” di Verdi, brano di grande impatto emotivo che impone una meditazione profonda sul senso della vita, sul mistero della fine, sulla mancanza di certezze sul destino dell’Oltre. Verdi dipinge a tinte fosche l’angoscia e lo sgomento dell’individuo-uomo, lo fa nell’urlo del “Dies Irae”, sfogo disperato e senza senso, ma che marca il sentimento di ingiustizia di fronte ad un Altrove impossibile a conoscere, come anche il terrore puro di un nulla assoluto nell’Aldilà. La forza dell’interpretazione del direttore è nella concentrata e profonda attenzione riservata alla cesellatura del suono attraverso l’uso meditato della dinamica orchestrale e la perfetta fusione con le voci del coro, egregiamente istruito dal maestro Piero Monti. E’ anche nella sua specifica qualità di farsi portatore di un’istanza musicale con una connaturata empatia e la capacità di trovare un linguaggio comune con il pubblico, accorso numerosissimo all’Auditorio (sold out). Dunque, quelle note dolcissime e i solenni meditativi richiamano la sala ad un assoluto silenzio, quasi sospeso per una riflessione e meditazione inusuali, un’atmosfera di incantamento suggerita da quel gesto delle braccia rimasto fissato nell’aria mentre le note e la loro eco si spengono in un nulla mistico, dove si esalta il valore del silenzio.
La genesi del Requiem si colloca in un’Italia che stava per costruirsi in Nazione e poi Stato, ansiosa di scrollarsi di dosso quell’infamante giudizio di Metternick che la vedeva come “un’espressione geografica”, perciò un Requiem dedicato a un illustre uomo che l’aveva onorata come il celebre Gioacchino Rossini, ormai trasferitosi in Francia, ma pur sempre espressione della genialità nazionale, non solo aveva la valenza di un giusto mezzo per onorarlo ma si inseriva nella necessità di nazionalizzare il popolo della Penisola, e, allo scopo, costruire un patrimonio comune per tutti gli uomini che a vario titolo, animati soprattutto dal patriottismo, spendevano la loro giovinezza e la loro vita per riunire in un solo organismo gli stati e staterelli, le monarchie assolute ormai anacronistiche, e per strappare ai colonizzatori, che ancora comandavano nella Penisola, le ricche regioni del Nord.
La morte di Rossini, avvenuta a Passy nel 1868, fu la causa e la motivazione remota per coinvolgere 11 personalità della composizione italiana e convincerle a costruire con la tecnica di un mosaico una messa da morto. In quel periodo cominciava a farsi strada una disputa fra chi valutava con estremo accoglimento le qualità della composizione operistica italiana e un bisogno di nuovi linguaggi, collegato anche a movimenti letterari come la Scapigliatura, che si faceva promotore di istanze differenti. Verdi, con illuminata attenzione alla diatriba, propose di onorare attraverso la sua musica, colui che era riconosciuto come il più grande operista italiano del secolo, Gioacchino Rossini.
Il progetto non ebbe esito; non ci si mise d’accordo, e si arrivò al 1873 quando scomparve un altro grande della cultura italiana, Alessandro Manzoni, la cui morte divenne lo stimolo prepotente per Verdi a riprendere l’antico progetto, inducendolo a comporre interamente il Requiem e non solo il “Libera me” finale. La prima di questo straordinario monumentale grido umano, di questa paura del Nulla eterno avvenne nella Chiesa di San Marco, ad un anno dalla morte di Manzoni, il 22 maggio 1874, diretta dall’autore stesso.
Era nato un capolavoro, sarebbe diventato un banco di prova per le grandi bacchette mondiali. Con Oren l’opera rinnova tutta la sua maestosa bellezza, si ritrova nell’incommensurabile vigore del suo momento più travolgente, quel Dies Irae che scaglia al cielo l’urlo di terrore con la forza della formazione, grande orchestra e coro al completo, chiamata ad un impegno parossistico, con la spazializzazione dei suoni con effetto michelangiolesco esaltato da quelle trombe poste ai quattro angoli della sala, con i momenti di profonda mestizia, sussurrati.
Ad interpretare il capolavoro verdiano, ecco un cast di grande talento: Eleonora Buratto, soprano perfezionata da Luciano Pavarotti e in ascesa stellare, dalla voce limpida e morbida, il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk, dalla straordinaria estensione e dalla perfetta tecnica vocale, il tenore Francesco Demuro, di origine sarda; dal debutto del 2007 in giro per il mondo a portare avanti il repertorio verdiano soprattutto, e Ain Anger, uno di più grandi bassi wagneriani che sia possibile ascoltare oggi, dalla voce profonda e possente. Tutti meriterebbero un’analisi specifica e approfondita. Per tutti, vogliamo citare Eleonora Buratto nell’epilogo della Messa, quel “Libera me” con le note dolenti che si spengono nel registro grave e suscitano un profondo sentimento di una religiosità che si avvia verso le vette del sacro universale.

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