50 anni fa la rivolta di Reggio Calabria… tragedia come tante dimenticate…
Roma, 26 luglio 2020 – Il numero monografico speciale in formato digitale di Calabria.Live, dal titolo “Le lacrime di Reggio”, dedicato ai 50 anni della Rivolta con interessanti articoli del grande Direttore Santo Strati, che mi onora di amicizia, le testimonianze del giornalista Bruno Tucci, allora inviato speciale del Messaggero che seguì per tutto il tempo i tragici avvenimenti, del giornalista Franco Calabrò, in redazione a Reggio per la Tribuna del Mezzogiorno e dello storico reggino Pasquale Amato. Apprendiamo, poi, con l’introduzione del Direttore Santo Strati,della nuova edizione del libro “Buio a Reggio”, di cui è autore insieme con gli indimenticabili giornalisti Luigi Malafarina e Franco Bruno, scomparsi rispettivamente nel 1988 e nel 2011. La nuova edizione è da oggi su Amazon e nelle principali librerie: un volume di 912 pagine, con oltre 180 foto, che va letto da chi vuole conoscere le pagine buie d’Italia…
Scrive Santo Strati: “”Non c’è niente da celebrare, in questo 50.mo anniversario della Rivolta di Reggio. Non sono d’accordo sul nome dato al Comitato (del quale peraltro con molta cortesia il Sindaco Falcomatà mi ha chiamato a far parte) e ritengo opportuno dedicare solo un commosso e sincero ricordo ai caduti, dell’una e dall’altra parte. Questi 50 anni sono trascorsi senza lenire le lacrime e le ferite di una città abbandonata, sola e ferita, “ricompensata” con la sede del Consiglio regionale e con tante promesse mai più mantenute. Come e perché successe saranno gli storici a dircelo, ma le ricostruzioni di parte che hanno ripreso a circolare non fanno che spargere sale su ferite mai rimarginate. Il punto principale, a ben vedere, è che è stata una lotta tra “poveri” e, peggio, tra calabresi, dove antiche rivalità tra la Città dello Stretto e Catanzaro sono emerse per responsabilità di politici distratti e assenti, forse troppo occupati a coltivare il proprio serbatoio elettorale, piuttosto che ragionare in termini positivi per il bene comune, per il benessere dei calabresi e della loro terra.
Non è stata, come qualcuno superficialmente insiste a dire, una guerra per un pennacchio, ma sono esplose le umiliazioni di anni, il senso dell’abbandono, la sensazione del tradimento e della cattiveria, come se ci fosse una punizione divina da eseguire, in termini politici. Certo, la classe politica reggina era di poco spessore rispetto ai “giganti” che potevano vantare Cosenza (Mancini e Misasi) e Catanzaro (Pucci) e questo ha contribuito rendere inutili e superflue le lamentazioni e le difese delle ragioni del popolo reggino. Ma, quello che è ancora più infelice da rilevare è che la nascita delle Regioni che doveva consolidare i territori e dare nuova spinta all’autonomia prevista dalla Carta costituzionale, in realtà si trasformò in una epocale rissa tra città e campanili, impedendo quella comunità d’intenti che avrebbe portato a uno sviluppo armonico e più consono a tutta la regione. La conflittualità latente tra Reggio e Catanzaro scoprì il suo nervo debole: addirittura nell’attuale capoluogo ci fu chi tentò di aizzare e organizzare le masse contro le “pretese” dei reggini.
Facile, con l’occhio del poi, argomentare che non ci sarebbe voluto molto per ipotizzare un piano di sviluppo che coinvolgesse tutte le tre città calabresi (poi sarebbero nate le altre due province Crotone e Vibo Valentia) per un obiettivo comune: la lotta al sottosviluppo e un corale impegno per la crescita. Lavoro, occupazione, benessere non erano, né sono, appannaggio di cosentini, reggini o catanzaresi: erano (e sono) un obiettivo da raggiungere per dare un futuro alle nuove generazioni di calabresi, di qualunque luogo.
Purtroppo, del pacchetto Colombo rimangono le ciminiere abbandonate della Liquichimica a Saline, gli agrumeti della Piana distrutti per un centro siderurgico che non ha mai visto la luce (con quale criterio di pianificazione industriale si poté mai pensare al ferro?), e il palazzo del Consiglio regionale. Un po’ poco per una Città che, per colmo di stravaganza, è diventata poi “metropolitana” cancellando la “provincia” senza riuscire a creare quel collante necessario per dare unità ai suoi 96 comuni.
Il capoluogo a Catanzaro ha offerto migliaia di posti di lavoro per burocrati e affini e la parvenza di un potere che non conta nulla: alla fine, probabilmente, non valeva le rivendicazioni – a volte ridicole, a volte banali – della Città dei due Mari. A testimonianza di un’inutile quanto esagerata manifestazione di potere c’è oggi il Palazzo di Germaneto, una Cittadella che vale molto, ma molto di meno dell’adiacente Policlinico universitario, che – quello sì – è vero orgoglio catanzarese. Come l’Università di Cosenza, l’Unical, partita come unico ateneo della regione, e diventata poi un centro di eccellenza, soprattutto nel campo dell’innovazione e delle nuove tecnologie. Come è salita agli onori accademici, l’Università Mediterranea di Reggio. I tre atenei lavorano insieme e sono gli unici ad avere raggiunto l’unità d’intenti che la Calabria ha sempre sognato, con un obiettivo nobile: creare formazione, specializzazione e occupazione per i nostri giovani ai quali, qualcuno fino a pochi anni fa, ha sistematicamente rubato il futuro. La fuga dei cervelli calabresi non è una finzione, ma un’amara realtà, che va bloccata. Qualcuno sta tornando, moltissimi non vorrebbero andare via: lavoro a casa propria significa crescita e sviluppo per la propria terra e per i figli che verranno.
Ecco questo triste anniversario può essere l’occasione per una reale e definitiva “pacificazione” (consentiteci il termine) tra le Calabrie e i calabresi. Gli errori, gli orrori, i morti, le stragi, i feriti, i mutilati, gli arrestati, meritano ampia riflessione e soprattutto cordoglio, con l’augurio e la debole speranza che possa servire come esempio negativo di come non si governa con la violenza o con l’indifferenza. Il ricordo di quei giorni è praticamente vivo in chi ha superato i 60 anni: i giovani non sanno nulla, ma hanno diritto di conoscere, sapere e capire il perché. I ragazzi che tiravano sassi e molotov oggi hanno quasi settant’anni e non li ha mai abbandonati l’idea che non avevano ragione, ma la loro rabbia, ricordiamocelo, era figlia di un torto mai riparato””. Sin qui Santo Strati.
Concludiamo, rinnovando l’ invito a leggere la nuova edizione di “Buio a Reggio”, curata da Santo Strati, storia che, come abbiamo letto, ebbe inizio il 14 luglio 1970 con uno sciopero generale e le prime barricate, e terminò il 9 novembre 1971, con il ripristino delle libertà costituzionali per la città. I morti furono cinque, cui vanno aggiunte le sei vittime del Treno del Sole del 22 luglio, il cui attentato non si sa se era collegato con i disordini reggini… Il bilancio dei feriti è di quasi 500 tra le Forze dell’Ordine, oltre mille tra la popolazione civile, con almeno dieci mutilati o invalidi permanenti. 1200 le persone denunciate, di cui 446 in stato di arresto. Enormi ovviamente I danni economici per la città per svariate decine di miliardi di lire. Insomma, impossibile calcolare quanto costò allo Stato questa rivolta frutto della “follia” di cittadini disperati e di politici indifferenti e volutamente distratti.
Si, un campo di battaglia con giorni di rabbia, al cui interno non c’era solo il tradizionale e mai risolto “disagio del Sud”… Quei moti non furono un fatto a sé nella storia del meridione; furono la prima rivolta sociale d’Europa, l’ultima di natura popolare, la più diffusa e la più lunga. Un fenomeno sociale, culturale, anzi identitario e non politico. Si, un fatto che è passato nella storia d’Italia, ma rimosso, ricordato con fatica, che però va conosciuto, soprattutto dai giovani … per il loro futuro difficile, tanto difficile, purtroppo… Certamente non per colpa loro!