Racconti di sport. El paròn de Francesco Giuseppe
Ricordo a tinte rossonere di Nereo Rocco.
Roma, 13 novembre – Lo chiamavano “el paròn” perché con quella sua aria burbera e autoritaria sembrava davvero il padrone della squadra.
In realtà, però, per i suoi giocatori Nereo Rocco era tutt’altro che un padrone.
Certo, l’autoritarietà non gli mancava, ma verso di loro era anche molto comprensivo. Una sorta di secondo padre, diciamo. In fondo, in gioventù, era stato calciatore anche lui e dunque ben sapeva quali fossero i pregi e i difetti di quella categoria così particolare di atleti. Lui, nato a Trieste il 20 maggio 1912, aveva calcato i campi con la maglia della Triestina dal 1930 al 1937, poi con quella del Napoli (dal ’37 al ’40) e del Padova.
Il suo vero nome era Nereo Roch, perché il nonno era un austriaco trasferitosi a Trieste da Vienna e quando divenne allenatore, per far capire ai suoi giocatori quanto amasse la disciplina e il rispetto delle regole, ripeteva spesso: “Mi son de Francesco Giuseppe”. Come a dire: attenti voi, che io sono un austriaco tutto di un pezzo e se sgarrate sono fatti vostri. Il cognome della famiglia cambiò da Roch in Rocco nel 1925 per ricevere la tessera del Partito Nazionale Fascista, necessaria per consentire al padre di lavorare nel porto. Il signor Rocco senior, infatti, aveva una macelleria che riforniva le navi, dunque il giovane Nereo crebbe in condizioni agiate, che per quei tempi erano un lusso. Nel 1947, a guerra finita, cominciò ad allenare la sua Triestina e qui basò la sua squadra sul comandamento principe del nostro calcio: primo non prenderle. Fu così che la portò ad un inatteso secondo posto alle spalle del Grande Torino nel campionato 1947-48.
Rocco allenava usando la diligenza del buon padre di famiglia, un po’ di bastone e un po’ di carota. Ma guai se i suoi si facevano infilare gol balordi, di quelli evitabili. Allora si che andava su tutte le furie. Di lui spesso si cita il nome per fare riferimento al “catenaccio” più puro del gioco all’italiana, dimenticando che con lui il Milan ha vinto praticamente tutto già prima dell’avvento di Berlusconi: 1 Coppa Intercontinentale, 2 Coppa dei Campioni (la prima in assoluto conquistata dai rossoneri, contro il grande Benfica dell’immenso Eusebio, la seconda contro l’Ajax dell’altro campionissimo Crujiff), 2 Coppe delle Coppe, 2 scudetti e 3 Coppe Italia. Nessun altro allenatore del Milan è stato capace di vincere in epoche diverse, con presidenti e calciatori diversi come ha fatto lui (dal 1961 al 1963, dal 1967 al 1972 e nel 1977, quando portò a casa la Coppa Italia dopo essere subentrato all’esonerato Marchioro). E poi è anche l’allenatore rossonero con il maggior numero di presenze: 459. Nonostante tutte le sue vittorie, però, a chi prima della partita gli diceva “Rocco, che vinca il migliore” rispondeva, un po’ scaramanticamente e un po’ per schernirsi: “Speremo de no”.
Ecco, questo era il calcio di Nereo Rocco. Uno sport molto più umano di quello di oggi, dove gli schemi si discutevano spesso al tavolo de “L’assassino” (lo storico ristorante rifugio dei milanisti), magari davanti ad un bel bicchiere di vino rosso. Qui Rocco confessava i suoi giocatori, ci parlava, cercava di capire chi era più pronto per la prossima gara e chi meno. Perché il calcio è cuore, polmoni, passione, sudore, fatica, motivazioni. Per lui quei “mona che parlano solo de schemi” lo avevano dimenticato. Poi, ovviamente, ci sono i piedi buoni. E di questi ultimi Rocco ne ebbe molti in squadra. Su tutti Gianni Rivera nel Milan e il povero Gigi Meroni nel Torino. A loro dava assoluta libertà d’azione e pazienza se poi, insieme a loro, faceva giocare anche il libero alle spalle dei difensori per coprirsi meglio (al Padova c’era Blason, che chiamava “il mio manzo”). Quello gli serviva per liberare la fantasia degli altri in attacco senza togliere solidità dietro alla squadra.
Fino al 2006 Rocco è anche stato l’allenatore che con più panchine in serie A (787). A togliergli il record, in quell’anno, fu Carletto Mazzone, che poi si è fermato a 795.