Matteo Messina Denaro, latitante di Stato
Magistratura, forze dell’ordine, massoneria: tutta la verità sulle piste affossate.
Roma, 02 febbraio 2022 – Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993, ultimo dei boss protagonisti della stagione stragista di Cosa Nostra ancora a piede libero, è fra i latitanti più pericolosi al mondo.
In questo libro, Marco Bova percorre nei dettagli ogni tentativo, ogni strada, ogni inciampo. Coadiuvato da Simona Zecchi , giornalista investigativa che scrive sul “Fatto Quotidiano” TPI e altre testate, collaborando con Report il 21 maggio scorso, si è occupata di cronaca giudiziaria e attualità, curando un’inchiesta sulla morte di Pasolini con pubblicazione del suo libro “Pasolini , massacro di un poeta” nel 2015, e nel 2018, “La criminalità servente nel caso Moro”, che ho letto e presentato su questa testata di cui è Direttore Salvatore Veltri.
E impietosamente mette in evidenza gli errori, le dispute e le gelosie interne, le interferenze, la cronica mancanza di coordinamento e soprattutto i tentativi di affossare chi lavorava con impegno per la cattura.
Dall’altra parte emerge una mafia in evoluzione, anzi già trasformatasi in una “Cosa Nuova”, i legami con la massoneria e con i «salotti buoni», le infiltrazioni nel mondo dell’alta finanza, gli interessi internazionali.
Matteo Messina Denaro, erede della mafia rozza e brutale dei corleonesi, è il simbolo di questa mutazione.
Che lo Stato non riesce e a volte non vuole comprendere.
Iniziamo a leggere parti del libro
– da pag.5. Prefazione di Paolo Mondani. “”Marco Bova ha scritto un racconto densissimo ispirato da un desiderio: liberarsi di un peso che sembra schiacciare ogni giornalista che si occupa di mafia, e poter parlare delle sconfitte di chi sta dietro l’ azione giudiziaria, delle ragioni complicate dietro queste sconfitte, del perché e del per come. Non oscurando alcun dettaglio. Se si aggiunge che l’oggetto è Matteo Messina Denaro, il latitante di mafia più famoso al mondo, e i tentativi di catturarlo che si susseguono da un trentennio, si comprende perché questo libro pesa e farà parlare di sé. Sicuramente tra gli investigatori, i Magistrati, gli avvocati, l’opinione pubblica più sensibile è avvertita. La sua latitanza non è innocente, ci dice Marco. E al di là degli intrecci e degli intrighi, che appassioneranno pagina dopo pagina il lettore, Marco Bova ci descrive come un potere soprastante sembra governare le sorti del latitante, una presenza massonica consistente e riservatissima che ne tutela identità e nascondigli, affari e relazioni altolocate. Trapani, del resto, non è provincia qualunque. Almeno da quel 1986, quando al circolo Scontrino di via Carreca 2, in piena città vecchia, vennero scoperte le liste della Loggia Iside 2. Politici e amministratori vi avevano trasferito il potere cittadino e riservatamente incontravano i grembiulini degli Asaro e degli Agate. Nell’85 la strage di Pizzolungo, poi nel 1987, e almeno per due anni, la scoperta del Centro Scorpione di Gladio a due passi da San Vito Lo Capo, e l’uccisione di Mauro Rostagno nel 1988. Mafia e massoneria come in un corpo solo che si insinua in ognuna di queste vicende. Trent’anni dopo il Procuratore Marcello Viola depositava in Prefettura i numeri aggiornati della libera Muratoria in provincia: 460 iscritti tra banchieri, imprenditori, politici locali, forze dell’ordine suddivisi in 19 logge, di cui sei attive soltanto a Castelvetrano, la culla di Matteo Messina Denaro.””
“”Viene da chiedersi: una volta catturato vuoterebbe il sacco sui cosiddetti mandanti esterni e sulle presenze oscure degli apparati di cui alcuni collaboratori di giustizia parlano? Parlerebbe dei Servizi segreti, della Falange Armata (quella componente creata ad arte – per quanto poco ancora se ne sa – da settori del vecchio SISMI e affacciatisi in diversi episodi fin dal 1990), dei rapporti con Saro Naimo di Cosa Nostra americana legato alla CIA? Probabilmente no. Ma con l’ergastolo ostativo (s’intende la perpetuità della pena detentiva nei casi in cui il condannato per reati mafiosi non appare incline a collaborare con la giustizia) e il 41-bis sul groppone, qualche frecciata la potrebbe anche lanciare. Se non altro per costringere lo Stato a piegarsi. Ecco perché in parecchi lo preferirebbero uccel di bosco a vita. Non per caso Marco Bovo definisce la sua una latitanza di Stato.””
“”Premessa. Perché questo libro. La lunga latitanza di Matteo Messina Denaro iniziata nel 1993, intanto, sta riproponendo sospetti e misteri sollevati a decenni di distanza dall’arresto di tutti iboss di Cosa Nostra. Nel secondo dopoguerra era Luciano Liggio, poi sarà la volta di Totò Riina e Bernardo Provenzano, arrestati al termine di fughe infinite costellate di protezioni, talvolta altolocate, in parte rimaste inesplorate. Spunti rilevanti sono arrivati via via dai collaboratori di giustizia, che, però, a fronte di chiarimenti e rivelazioni inedite, hanno omesso poi molti dei dettagli sulle latitanze dei capi mafia. Tutti loro sono morti in carcere, da detenuti, ma a distanza di anni è lungo l’elenco di indagini e processi per le mancate catture dei boss corleonesi, più volte a un passo dall’arresto, svanito sempre per un soffio. Matteo Messina Denaro però è il primo latitante a dover sfuggire a una caccia ad alto impatto tecnologico, nell’era dei GPS invasivi e delle intercettazioni facili. La sua latitanza è il principale residuato bellico della “strategia stragista”, eseguita a partire dal 1992, con gli attentati di Capaci e via D’Amelio per cui Matteo è stato condannato dal Tribunale di Caltanissetta tra i mandanti. Strategia proseguita nel 1993 con le bombe di Firenze, Roma e Milano, per le quali il latitante è stato riconosciuto anche tra gli esecutori. Strategia, infine, interrotta alla vigilia di un’altra strage, organizzata allo Stadio Olimpico e poi fallita. Il progetto stragista, snocciolato in decine di processi giudiziari e ordinato da Riina, alcune Procure lo ritengono influenzato da “personaggi esterni” a Cosa Nostra, che avrebbero determinato l’accelerazione della strage di via D’Amelio per ragioni ancora poco chiare, nonostante le numerose testimonianze raccolte, le quali, a ogni anniversario di strage, si vanno ad aggiungere come ulteriori elementi o dettagli.””
– da pag.23. “”Stato disunito. Purtroppo la caccia all’ultimo ricercato di Cosa Nostra non è mai stata unica e coesa. Il tanto sbandierato coordinamento, principio aureo al quale Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno dedicato la loro vita, in questo caso non conta. Così ognuno procede per conto suo, in ordine sparso. Intanto, le indagini vengono monitorate dalla Direzione nazionale antimafia (DNA) ma in concreto il pallino è retto dalla Direzione distrettuale antimafia (DDA) di Palermo, che in questi decenni ha arrestato decine di complici del latitante senza riuscire a raccogliere elementi utili per acciuffarlo. Quello che a tal proposito afferma, non senza amarezza, l’ex Magistrato Vincenzo Macrì, impegnato nelle indagini sulla ‘ndrangheta e per anni in servizio alla “Superprocura”, è tagliente: “Di certo questo non è il momento migliore per la DNA”. Altro fattore: il coordinamento tra i due organi è decisamente precario, come svelano le chat del Magistrato Luca Palamara, l’ex Presidente dell’Associazione nazionale magistrati (ANM) e prima membro del Consiglio superiore della magistratura (CMS) che dal 2019 con le sue rivelazioni sta facendo tremare la giustizia italiana. “In questo momento Lo Voi (Francesco, Procuratore capo di Palermo) ha detto a Del Bene (Francesco, Sostituto procuratore DNA) che non intende dargli informazioni in genere sui procedimenti e lo ha messo in una situazione di merda. Noi dobbiamo far capire a queste munnezze che non comandano più un cazzo e Federico è congeniale a questo progetto” ordinava il Magistrato via Whatsapp riferendosi al Procuratore Capo antimafia Federico Cafiero De Raho.””
– da pag.236. “”Epilogo. Ritorno al sindacato dei misteri. Voglia di rivalsa. La lunga permanenza nel supercarcere di Pianosa lo porto dentro come un’infame piaga, segnata dai manganelli senza guaina, dalla quale ho fatto di tutto per disfarmi, perché ho ritenuto e ritengo insopportabile la schifosa accusa di essere un trafficante di droga, messa addosso da un soggetto come Calcara su cui si è detto di tutto, e che mi ha accusato di essere un mafioso e di aver fatto uccidere il mio caro amico Vito Lipari. Per questo ho lottato in tutti i modi: per riscattare la mia dignità. ”Diceva così il professor Antonio Vaccarino, l’ex sindaco dei misteri di Castelvetrano che dopo la scarcerazione del 1997 sarà protagonista di una delle vicende più torbide di questi trent’anni di caccia a Matteo Messina Denaro, fino alla morte, arrivata nel maggio 2021, dopo aver sconfitto il covid. Aggiunge il professore: “Appena sono uscito dal carcere è venuto a cercarmi Michele Filardo, cognato di Francesco Messina Denaro, che era ancora vivo, per chiedermi se io avevo intenzione nel tempo di incontrare suo cognato perché io godevo della sua stima e aveva il suo desiderio di conoscermi, ma non poteva perchè era latitante, per cui avrei dovuto andarci io. Ovviamente non sono andato da nessuna parte, ma da quel momento ho pensato che avrei potuto mettere a disposizione questo ruolo che mi veniva riconosciuto nella cattura di quel cretino di Matteo Messina Denaro”. È, questa, la genesi spiegata da Vaccarino della corrispondenza segreta intrattenuta con il latitante, tra il 2004 e il 2007. Un’ operazione che tuttora presenta aspetti poco chiari, indistinti come il tratto della penna che finisce sul foglio e non prosegue mentre prendi un appunto che però resta in testa. Nella memoria di pochi, infatti, restano conservati tuttora quei contorni sfocati di una storia incompleta. La notizia in sé non mancherà di uscire: i suoi principali contenuti saranno svelati all’indomani dell’arresto dell’allora capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, cercato per quarant’anni e poi catturato assieme al suo archivio di pizzini, inviati e ricevuti dallo “Zu Binnu”. Una santabarbara di messaggi in bottiglia ritrovati nel covo, una decina dei quali spediti anche da Matteo Messina Denaro, pronto a dettagliare alcune questioni, rivolgendosi all’anziano boss con la deferenza che spetta a un’autorità sugli affari delle famiglie ma anche sulla sua corrispondenza con un tale Vac, sulla cui identità gli inquirenti dopo pochi interrogatori convergeranno: si tratta proprio del professore Antonio Vaccarino. La DDA di Palermo da quel momento avvierà un’indagine e dall’analisi dei suoi tabulati emerge una serie di contatti telefonici con dei funzionari dei Servizi, i quali, su richiesta specifica, inviano delle note in cui si confermerà la collaborazione dell’ex sindaco di Castelvetrano. Il rapporto epistolare tra Vaccarino e Messina Denaro si compone di sei lettere firmate “Alessio”, nome utilizzato dal latitante, quattro missive inviate dal professore, a nome “Svetonio”, come vedremo più avanti. L’inchiesta finirà per essere archiviata ma i contorni della corrispondenza e il successivo disvelamento, sembrano tutt’altro che chiari, anche alla luce di alcuni dettagli inediti raccontati da Vaccarino in quest’ultima intervista, da incrociare a loro volta con il contenuto dei pizzini consegnati dai Servizi , quelli sequestrati a Provenzano e infine con i racconti degli investigatori antimafia.””
– da pag. 271. “”Conclusioni. Da alcuni decenni la guerra di sangue è finita, ma la narrazione offerta è rimasta fedele a quel confine che, operando ancora da spartiacque, rischia di consegnare alla storia una realtà deformata. Per questo, quale che sarà l’esito dell’assedio a Messina Denaro, era importante fissare nero su bianco ciò che è accaduto e sta accadendo ancora in questa triste terra di Sicilia, in cui anche lo Stato, nelle sue forme più solenni come la Magistratura o gli investigatori, ha contribuito alla mancata cattura. Per raccontare il dietro le quinte della ricerca del latitante di Castelvetrano, era necessario appunto oltrepassare il confine delineato negli anni, quello autoimposto e quello imposto da altri, o quello che talvolta il timore e la paura indicano come unica strada da seguire, paura di rompere equilibri, di infastidire le Procure più dello stesso latitante, ma non solo. E farlo attraverso lo strumento dell’inchiesta giornalistica mi è parso in questo momento l’unico modo, dove i tentativi più o meno genuini, adottati da magistrati investigatori, anche trovano posto. Pochi mesi dopo da quell’udienza di 29 anni fa, inizierà la sua latitanza ma quando i lettori avranno questo libro tra le mani, Messina Denaro potrebbe essere stato già arrestato, oppure ucciso in un blitz pasticciato. Quale che sia la conclusione, sarà necessario valutare senza sconti le ragioni e le conseguenze di questa caccia mancata lunga anni che imbarazza un po’ tutti. Recenti ricostruzioni ipotizzano che viva braccato dalle indagini assillanti, costretto a vivacchiare in qualche casolare in aperta campagna, in uno scenario da tempo ipotizzato però dagli investigatori che pensano sia nascosto nelle trazzere dell’entroterra siciliano. Altri elementi emersi nel corso della lunga caccia, tuttavia, lo proiettano in una latitanza dorata, protetta da autentici insospettabili nel solco della storia delle antiche tradizioni della mafia siciliana e con coperture che non hanno risparmiato le tenute dei nobili e i ranch di importanti uomini di Stato. La latitanza di Matteo Messina Denaro sembra inoltre di dispiegarsi nelle modalità d’azione proprie del mondo dell’intelligence piuttosto che in quelle di Cosa Nostra, e come il più antico dei doppi giochi, probabilmente, alla fine, sarà arrestato su segnalazione, come già accaduto per molti dei latitanti di spessore, tra l’altro. In quest’ottica, il successo elettorale del 1994 di Silvio Berlusconi, e della neonata Forza Italia, coincide con l’ascesa criminale di Matteo Messina Denaro, che in quegli anni scorrazzava per il Bel Paese assieme a Giuseppe Graviano, arrestato il giorno prima che l’imprenditore milanese annunciasse la sua discesa in campo. È stato Graviano a certificare lo zampino dei “picciotti” nella nascita del partito, in stretto collegamento con Marcello Dell’Utri, che ha finito da poco di scontare 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. L’ex di Publitalia, invece, è stato assolto in appello nel processo sulla Trattativa Stato-mafia ed è, insieme all’ex premier, indagato come mandante delle stragi. Una liason politica proseguita anche quando sul cavallo berlusconiano salterà Angelino Alfano, per alcuni anni in auge nello scenario nazionale, il quale a sua volta imbarcherà anche il deputato regionale Lo Sciuto, amico d’infanzia di Denaro con la passione per le associazioni segrete. Volendo guardare al di là delle “protezioni innominabili” di cui gode Messina Denaro, abbiamo provato ad approfondire alcuni degli assist forniti dalla disorganizzazione investigativa, causa questa della mancanza di un coordinamento autentico.””…“”Cosa Nuova scalza Cosa Nostra. Secondo gli organi più autorevoli, Matteo Messina Denaro non è il capo di Cosa Nostra: si fa i fatti suoi e non interferisce con le decisioni interne, a malapena da lui imposte nel trapanese. Da tempo le microspie degli investigatori documentano i tentativi di ricostituire una cupola siciliana, finora conclusi tutti con dei blitz. Adesso però i nomi più gettonati, quasi per acclamazione, sembrano quelli dei palermitani Stefano Fidanzati e Cosimo Vernengo, destinati a schiantarsi contro la balcanizzazione della vecchia Cosa Nostra. La figura di Messina Denaro invece sembra sia rimasta lì, appoggiata sull’altare di questa narrazione, impegnata a descriverne i contorni e incapace di coglierne la sostanza.””
Sin qui parti dell’interessante libro. Ora commenti, integrazioni e valutazioni.
Da Liberale, libero cittadino libero pensatore non massone, trovo che nella narrazione della vita del più potente mafioso oggi in vita, si dia ampio spazio alla massoneria, oggi rovina della società, non essendo più quella di ideali di moltissimi decenni addietro.
Aggiungo. A febbraio del 1992, inizia a Milano l’inchiesta Mani Pulite. Ma che relazione c’è tra le due cose? Nel gennaio del 2020, in una clamorosa intervista a “L’Espresso”, l’ ex PM Antonio Di Pietro dichiara a Susanna Turco: «Mani Pulite è una storia che andrebbe riscritta. Mani Pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Falcone riceve riservatamente dal pentito Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio del 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». Michele Sindona, Roberto Calvi, Raul Gardini, sono tre casi clamorosi di alta finanza internazionale finiti poi in quegli ambiti. Eventi importanti che onorano Giovanni Falcone. Dal 12 al 16 ottobre, le sedi ONU presenti a Vienna hanno ospitato la Conferenza degli Stati aderenti alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale – l’UNTOC, in cui è stata approvata all’unanimità la risoluzione italiana presentata nella capitale austriaca durante la quattro giorni della Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale. È il primo atto di questo genere che valorizza il contributo di una singola grande personalità, Giovanni Falcone, e le sue straordinarie intuizioni e capacità investigative. È il sogno che si avvera del grande Giudice siciliano che, già negli anni Ottanta, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata diventasse un problema globale ma non aveva gli strumenti legislativi perché non c’era una norma che prevedesse l’impegno corale degli Stati. La risoluzione è nota come la «Convenzione di Palermo», ratificata nel 2000, che fu il primo strumento legislativo contro la criminalità organizzata transnazionale. È stato l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale. Proprio Falcone aveva intuito — grazie anche al lavoro del vicequestore Boris Giuliano, poi ucciso dal boss Leoluca Bagarella — che più che le persone bisognava seguire il fiume di denaro «sporco» che generavano e il suo «follow the money» è diventata la pietra miliare di tutte le indagini in tema di malaffare nel mondo. “Giovanni Falcone credeva fermamente nella necessità di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie. Al centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato”. Lo dice Maria Falcone, Presidente della Fondazione Falcone e sorella del Magistrato, commentando l’approvazione all’unanimità da 190 nazioni della risoluzione italiana.
Di questo rendiamo idealmente omaggio a questo Eroe italiano, del quale noi Cittadini onesti siamo tutti orgogliosi!!