Cultura

Teatro dell’Opera – Werther di Massenet inaugura il calendario 2015

werther massenetI  tormenti d’amore
Febbrile: in questo aggettivo si condensa la natura del  “Werther” di Massenet,  questo eroe di  inchiostro e suono, nato sulle suggestioni letterarie di Goethe, pervaso dalle modulazioni preromantiche dei canti  del “Ciclo di Ossian” raccolti dal poeta scozzese James Macpherson, e affidato dal musicista alla cura dei librettisti Edouard Blau, Paul Milliet e George  Hartmann,  che il bravo direttore Jesús López-Cobos presenta al pubblico del Teatro dell’Opera di Roma. Niente aristocratica malinconia (quella che caratterizzava l’ineguagliabile interpretazione di Alfredo Kraus), niente  follia d’amore che travalichi i limiti delle convenzioni dell’epoca, semmai imperante è il richiamo, fin dall’apertura del sipario a quel  suicidio finale con il quale Werther realizza una full immersion nell’amore romantico, quello che coniuga instancabilmente il binomio eros-thanatos, dove la realizzazione, l’esito è la rinunzia alla vita, il trasferimento in un morboso mondo sotterraneo per eternizzare la pena del cuore, ma anche per sciogliere i dubbi sulla condivisione del sentimento.
 Allora su una scena dalla prospettiva insolita che gioca sulle diagonali e su una parete mobile, «un’unica scena che racchiude l’anima imprigionata di Charlotte. Dal suo piccolo mondo, intimo e borghese, solo lei riesce ad aprire uno squarcio sul cuore tormentato di Werther, puro e selvaggio”,  si distende un campo assolato, come una calotta curva e innaturale dove Werther gioca con una pistola che non possiede. E’ scomparsa ogni veridicità scenica ( scenografo e costumista Wolfgang Gussmann ) e  un  artista come Willy Decker (la regia a Roma  è ripresa da Jean-Louis Cabané), può volgersi a ricercare  una autentica essenzialità di linguaggio, dando spazio alla rappresentazione più scavata possibile dei sentimenti, estraendo dal contesto  sociale del borgo ingessato, ridotto scenograficamente a delle suggerite più che realistiche case.  La scelta di una scenografia minimal, questo unico ambiente quasi claustrofobico grigio visto trasversalmente che si apre sul fondo a mostrare una natura espressionista con i vistosi gialli di una campagna  estiva  o il bianco abbagliante della neve( luci di Joachin Klein) obbedisce alla volontà di centrare l’azione sui due protagonisti: il poeta nelle cui vene scorrono poesia, sangue e sogno d’amore e la giovane donna che non riesce a superare i limiti delle sue responsabilità borghesi e a volare alto con lui.
E’ un crescendo che si costruisce seguendo la preziosa partitura di Massenet fino al suicidio finale con quell’arma che resta sempre in scena come una memoria, per anticipare la clausola della storia “che non fu” fra Charlotte e Werther, mentre si affacciano  neri inquietanti  mefistofelici Schmidt e Johann, vestiti da becchini con una grossa tuba nera in testa, e il ritratto della mamma morta di Charlotte praticamente diventa il centro, sia esso posato su uno sgabello, ovvero tenuto religiosamente  in mano o fissato sulla parete, immanente sempre. Quella madre che anche morta continua a tessere le trame e gli orditi della figlia maggiore vincolata sul letto di morte da un giuramento. Siamo in pieno Sturm und Drang.
 Quest’opera di sofisticata e straordinaria eleganza, dalle melodie di indimenticabile dolcezza, dove il lirismo e il sentimento che vivono in una dimensione iperuranica si permeano reciprocamente per riversarsi poi nel mondo ingessato piccolo borghese dove i personaggi vivono le loro vicende, è stata sfrondata di ogni orpello, da ogni sopraffazione registica, per elevare i due protagonisti al rango superiore di un amore impossibile che deve fare i conti con la promessa di sposare Albert che Charlotte fa alla madre sul letto di morte e poi ai suoi doveri di moglie.
Questo allestimento  dell’Opera di Francoforte, realizzato una decina di anni fa, arriva a Roma dopo aver girato per l’Europa. Un’occasione preziosa per il pubblico che ha avuto a disposizione voci di rilievo, a cominciare dal protagonista eponimo, Francesco Meli, che ha debuttato il ruolo nel 2010 a Parma e che è degno erede delle grandi voci del passato, dolente e febbrile come il personaggio richiede, morbido nell’emissione delle note filate, limpido negli acuti. Charlotte è affidata alla voce del mezzosoprano Veronica Simeoni che costruisce con eleganza il personaggio a partire dall’uscita sul palcoscenico, nell’aspetto materno di una sorella maggiore che al posto della mamma morta cresce i suoi fratelli  in una escalation che la vede innamorata tormentata di Werther sino al finale dove l’uso dei chiaroscuri diventa sapiente e si accresce con eleganza e ardore sempre più intensi fino alla preghiera ” Ah! Mon courage m’abandonne. Tenerissima  la Sophie di Ekaterina Sadovnikova, mentre l’Albert che disegna Jean-Luc Ballestra è un personaggio rigido e borghese, lontano dal mondo dei due infelici amanti tessuto dalla impalpabile leggerezza della poesia.

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