Tematiche etico-sociali

Dal Golpe alla P2 – Ascesa e declino dell’eversione militare 1970-1975

Di Francesco M. Biscione

Roma, 29 maggio 2022 – Francesco M. Biscione, nel libro “Dal Golpe alla P2 – Ascesa e declino dell’eversione militare 1970-1975”, fa l’analisi dell’eversione che vede il coinvolgimento dei militari con altri importanti settori dello Stato.
Nel 1974, in Italia, le forze eversive abbandonano l’idea dell’assalto aperto e frontale alla democrazia, rivelatasi fallimentare e controproducente, scegliendo una nuova e più efficace strategia: il superamento del ruolo centrale finora riservato alle Forze armate e la penetrazione nelle istituzioni repubblicane per attuarne una profonda distorsione.
La nuova forma dell’attacco alla democrazia ebbe largamente le sembianze della loggia massonica P2, ma al successo dell’operazione contribuirono il Sid, settori della Magistratura e il Ministro della Difesa Andreotti.
Grazie a un’approfondita disamina di molte carte giudiziarie italiane e della documentazione proveniente dall’amministrazione Nixon, resa pubblica negli anni recenti, il libro racconta il passaggio, ancora poco noto, verso l’elaborazione di questo nuovo progetto antisistema in grado di superare lo stallo su cui la strategia della tensione si era arenata e di spezzare il percorso dello stesso progetto costituzionale repubblicano.

Francesco M. Biscione, Consulente delle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul terrorismo e le stragi (1994-95) e sul dossier Mitrokhin (2004-05), è studioso di storia contemporanea.

Tra le sue pubblicazioni: Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano (Coletti, 1993), Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo (Bollati Boringhieri, 2003) e Il Delitto Moro e la deriva della democrazia (Futura/Ediesse, 2012).

Iniziamo a leggere parti del libro pubblicato nel febbraio 2022. 

– da pag.8.“”Tentavo allora di descrivere un movimento politico con forti radici nella società italiana, la cui traiettoria non coincideva né con l’anticomunismo insito nella Guerra Fredda, né con alcuna delle forze politiche in campo; un movimento costituito da una borghesia eversiva presente nella burocrazia statale, nelle Forze Armate, nella stampa, nella finanza. Questo movimento – che leggevo come espressione del sommerso della Repubblica, cioè la forma assunta in epoca repubblicana di una tendenza reazionaria e illiberale sempre esistita nella società italiana – era orientato a colpire e demolire il sistema dei partiti, cioè la forma della democrazia assunta dall’Italia, in ciò facilitato da quegli elementi di crisi indotti dalla “democrazia bloccata” e dall’oggettiva complicazione costituita dal fatto che l’ unica alternativa politica alla DC non poteva che incentrarsi sul Pci. Non si trattava di un partito ma di un insieme di individui, consorterie, gruppi di potere, lobbies aventi tra loro relazioni discontinue: vi erano naturalmente dei fascisti (ex, post o neo) ma in poche occasioni essi furono davvero determinanti in quanto tali; vi erano oltranzisti atlantici il cui anticomunismo non era ispirato ai principi democratici; ex partigiani che non avevano condiviso del tutto l’ evoluzione del paese dopo la Liberazione; figure come Michele Sindona, il cui orientamento politico, non particolarmente caratterizzante dal punto di vista biografico, risultava comunque essenziale; settori dell’ intelligence, particolarmente ricettivi delle tensioni internazionali, fautori di una “destabilizzazione stabilizzante”. Neofascisti che puntavano alla disintegrazione del sistema; settori militari di orientamento golpista; settori del crimine organizzato… Ora sappiamo che questo rivolgimento, a cui è dedicata buona parte di questo studio, avvenne non solo e non tanto per il pur fondamentale lavoro dei Magistrati – che in pochi anni avevano svelato i tratti essenziali della strategia della tensione – nè fu determinato dalle pure importanti mobilitazioni antifasciste che seguirono soprattutto la strage di Brescia del maggio 1974, ma avvenne innanzitutto perché nello stesso movimento la coscienza del fallimento spinse a sperimentare nuove strategie e nuove linee di condotta per cui il movimento perse alcune caratteristiche e alcune componenti e ne acquisì di nuove. (Mio articolo https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/strage-di-brescia-del-1974-la-terribile-notte-della-repubblica-45456/). Qualche anno fa, quando rimisi mano all’ argomento, valutai innanzitutto la possibilità di realizzare – obiettivo che ritengo ancora attuale – una storia della Loggia massonica P2 (1966-1981), formazione che per longevità, intuizione strategica ed efficacia aveva costituito la parte più interessante ed esplicativa dell’ intero movimento, soprattutto allorché, a partire dal 1975, divenne rappresentativa di settori rilevanti della classe dirigente e in grado di individuare il punto di rottura della cosiddetta “Repubblica dei partiti”…
Il punto di svolta della storia della P2 avvenne con il Piano di rinascita democratica (teso tra l’autunno del 1975 e i primi del 1976) con il quale la Loggia – sino allora modesta formazione attiva nel campo dell’eversione – divenne una forza di prima grandezza nello Stato come nell’ antistato. Il piano piduista nasceva anche da relazioni strategiche che riguardavano il mondo della finanza, rapporti internazionali, crimine organizzato, editoria e giornalismo ecc., che più o meno recentemente si erano aggiunti o si stavano aggiungendo ai più tradizionali ambiti di intervento, proiettando la Loggia in un nuovo scenario.””

– da pag.13. “”Il tempo del golpe. Il tema del golpismo oggi può essere affrontato solo ponendo in via preliminare la questione delle fonti, che in tempi relativamente recenti si sono notevolmente ampliate rivoluzionando lo scenario. Negli anni erano stati registrati molti episodi che vedevano ambienti militari coinvolti in azioni a carattere eversivo, talora perfettamente noti o anche giudiziariamente sanzionati, ma non risultavano chiari coinvolgimenti di strutture militari centrali o di prima importanza. Non era cioè identificabile la linea di protagonismo militare e tutto sembrava limitarsi a episodi di sostegno della strategia della tensione; concorrevano a ciò anche la valutazione del piano Solo del 1964 (Mio articolo, come gli altri, pubblicati su www.attualità.it di cui è direttore Salvatore Veltri): https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/il-colpo-di-stato-del-1964-non-dei-carabinieri-servitori-dello-stato-dal-1814-50162/) come vicenda prevalentemente politica (valutazione peraltro corretta) e gli esiti dei pochi procedimenti giudiziari… Il tema del golpe vi compare per iniziativa di Junio Valerio Borghese e dei suoi uomini che più volte (certamente nel marzo 1969, nel gennaio e nell’ agosto 1970) avvertirono l’ amministrazione Nixon di iniziative e intendimenti. Il punto di contatto per così dire strategico era nel rischio che, crollato il centrosinistra, l’Italia inclinasse verso il comunismo, ma la valutazione statunitense era meno allarmata di quella dei golpisti, e nell’ agosto 1970, quando il tentativo fu dato per imminente, gli Stati Uniti scelsero di non sostenerlo perché, sia nel caso dell’improbabile riuscita sia di fallimento, l’iniziativa rischiava di compromettere i rapporti internazionali di prima importanza. Non essendo però il movimento di Borghese di osservanza statunitense, la sortita del dicembre 1970 fu ugualmente tentata e quando il tema fu riproposto, nell’aprile 1971, la contrarietà statunitense fu ribadita, più per valutazioni di opportunità che di principio.””

– da pag. 22. “”Dal golpe alla P2. Dal 1973, il quadro di insieme era noto all’intelligence e, tramite il Sid, al Governo, ancorché tra il Sid e il Governo non vi fossero relazioni del tutto lineari. Inoltre, era allora già affermata anche l’idea che la liquidazione del golpismo fosse la chiave per ridurre le pulsioni antisistema dell’estrema destra a mera questione di polizia e di ordine pubblico. Se oggi abbiamo il vantaggio di vedere le cose più da lontano e conosciamo diversi particolari allora ignoti ai più (per esempio, sul deragliamento della Freccia del Sud a Gioia Tauro, sulla strage di Peteano, sui nuclei di difesa dello Stato) non si può negare che il Sid, pure inefficace a fermare le stragi, avesse le informazioni necessarie per chiudere una stagione di violenza. Il Sid disponeva anche di informazioni – che, a volerle utilizzare, avrebbero potuto rivelarsi decisive – sui rapporti tra la P2 di Gelli e il movimento golpista, che il servizio non intese elaborare nel fare oggetto di specifiche note… Ma nel 1974 – soprattutto per l’ indebolimento delle posizioni di destra dopo l’ esito del referendum sul divorzio e dopo la strage di Brescia (13 e 28 maggio) – un intervento apparve non più procrastinabile. Solo il quinto governo Rumor (marzo- novembre 1974), si dispose dunque ad affrontare con una qualche determinazione l’emergenza della violenza con i Ministri Taviani e Andreotti, rispettivamente agli Interni e alla Difesa. Taviani, esponente dell’antifascismo democristiano, si mosse su una linea che interpretava la fase politica e teneva conto delle più recenti evidenze: critica della politica degli opposti estremismi, riconoscimento dell’impronta fascista dei maggiori episodi eversivi, l’istituzione dell’Ispettorato antiterrorismo sulle ceneri degli Affari riservati. Invece Andreotti compì un’operazione estremamente complessa che ebbe l’ effetto di mutare in modo sostanziale le condizioni del movimento eversivo, e lo fece con modalità originali, senza mai esporre l’insieme del disegno ma presentando soltanto i singoli segmenti, ragion per cui la ricostruzione della sua linea appare ancora problematica. Inoltre l’iniziativa del Ministro avvenne attraverso il coinvolgimento del Sid (del quale, con l’ estromissione di Miceli, riprese saldamente il controllo che i precedenti esecutivi avevano in parte perduto) e dei settori della Magistratura romana con cui stabilire rapporti nei quali si intravede anche una progettualità politica. In breve, i primi di luglio Andreotti ricevette dal Sid il rapporto sul golpe Borghese e sull’evoluzione del movimento golpista, che, oltre a fornire un’informazione sul radicamento del movimento nelle Forze Armate, dava alcune indicazioni circa una nuova sollevazione prevista per agosto. Tra luglio e agosto Andreotti prese una serie di iniziative per scongiurare la minaccia (tra queste l’allontanamento dai settori operativi di alcuni ufficiali che si supponevano coinvolti), ma non si ebbero segnali di tentativi insurrezionali. Quindi, assunto il patrimonio informativo del Sid e giudicando il rapporto puramente indiziario, Andreotti chiese al servizio una nuova redazione del documento senza riferimenti agli ufficiali citati, ad eccezione di quelli la cui attività erano notoria e comprovata. A metà settembre la nuova stesura fu inviata dal Sid al Tribunale di Roma, accompagnata da una lettera del Ministro della Difesa. Il Tribunale di Roma a sua volta riavviò il procedimento giudiziario per il tentato golpe del 1970 (la cui istruttoria iniziata ai primi del 1971 era ferma da tre anni), muovendosi rigorosamente nel quadro delineato da Andreotti (il Pubblico Ministero era Claudio Vitalone). Il processo non approfondì le indagini sulle reali forze che avevano animato il movimento né i nessi con la strategia della tensione. Inoltre i Magistrati romani sollevarono presso la Cassazione il conflitto di competenza che portò nel dicembre 1974 alla liquidazione dell’istruttoria di Padova, i cui atti furono accorpati nel procedimento romano che conseguì il sostanziale monopolio dell’ inchiesta sul golpismo. L’ operazione di Andreotti pose dunque fine all’eversione militare.””

– da pag. 37. “”Come è noto l’informazione, che nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 si fosse mosso qualche cosa di preoccupante (che quel movimento fosse collegato con il progetto di un colpo di Stato), divenne di pubblico dominio solo nel Marzo 1971, oltre tre mesi dopo i fatti, attraverso i quotidiani e la televisione. Il 18 Marzo 1971 ‘L’Unità’ apriva con la notizia di “un vasto complotto reazionario” e ‘La Stampa’ “sulla cospirazione dei gruppi paramilitari della destra”. Si trattava di una notizia indiretta e, a leggere gli articoli, si comprende che l’informazione di cui sino allora la stampa disponeva era che la Magistratura aveva aperto un’ inchiesta sul fronte nazionale in relazione a un episodio recente. La notitia criminis era pervenuta alla Procura di Roma per una nota dell’ufficio politico della Questura in data 11 marzo 1971. Con le perquisizioni effettuate il 10 Marzo anche nello studio romano di Borghese, si acquisiva la documentazione di una certa rilevanza e, soprattutto, l’informazione di una clamorosa azione di commandos, che sarebbe stata organizzata per la notte tra il 7 e l’ 8 dicembre, “azione che avrebbe dovuto dare la vita a un vero e proprio colpo di Stato”. Il 18 Marzo il PM Claudio Vitalone apriva il procedimento giudiziario per cospirazione politica mediante associazione (art. 305 CP). Ne seguivano gli ordini di cattura per Orlandini, Rosa, Saccucci e Borghese (che si rendeva irreperibile) per avere organizzato un’ azione diretta a suscitare un’insurrezione contro i poteri dello Stato, reato per il quale il CP prevede la pena dell’ ergastolo.””

– da pag.206. “”Il processo per il golpe Borghese. Il 9 settembre 1975 il PM Vitalone chiedeva il rinvio a giudizio di 84 indagati. In leggera difformità, il Giudice Istruttore Fiore il 5 novembre 1975 ne rinviava a giudizio 78. Dalle premesse, il processo proseguì come era stato progettato e non si ebbero sorprese nel dibattimento. Nella sentenza di primo grado, 14 luglio 1978, cadeva l’imputazione per insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Nella sentenza di primo grado, che aveva una valenza in un certo senso ideologica tendente a sminuire la portata dell’ evento, il tema dell’insurrezione è uno degli aspetti più curiosi in quanto l’ istruttoria aveva confermato che nella notte del 7 dicembre era effettivamente avvenuta l’effrazione dell’armeria del Ministero degli Interni, narrazione che non aveva avuto sinora una verifica definitiva. La prova della violazione era nella coincidenza di due circostanze: nel colloquio di Lugano del17 giugno 1974, registrato da La Bruna (Ufficiale dei Carabinieri dei Servizi) e oggi agli atti del processo, Orlandini aveva raccontato come fosse avvenuta la penetrazione nel Ministero, come l’armeria fosse stata svuotata e trasferita su un camion e come infine, dopo il contrordine, le armi fossero state riposizionate, eccezion fatta per una pistola mitragliatrice Beretta che era stata sottratta e quindi successivamente sostituita con un’ arma simile assemblata artigianalmente. Il Giudice Istruttore Amato accertò che effettivamente in un lotto di sei pistole ve ne fosse una difforme, sequestrò le armi e fece i dovuti accertamenti che confermano la contraffazione. Nella sentenza, invece, si davano dell’evento letture sminuenti fino a negarne tout court l’attendibilità in un racconto confuso e inadeguato in relazione agli elementi di prova acquisiti. Le pene comminate dalla Corte d’Assise, in gran parte per cospirazione politica mediante associazione, furono nel complesso miti. Nello stesso1978 il Tribunale di Roma metteva la parola fine anche formalmente ad altre due vicende connesse con il processo principale. Veniva ad una conclusione giudiziaria la vicenda di Edgardo Sogno e dei suoi sodali. La sentenza del 12 settembre 1978 del giudice istruttore Franco Amato, comunque non priva di finezza, scioglieva gli indagati perché “il fatto non sussiste”. Del resto, una volta che il processo per il tentato golpe aveva assolto chi aveva tentato l’insurrezione, come si poteva condannare chi l’aveva solo immaginata?”” Su Edgardo Sogno segnalo l’interessante libro “Edgardo Sogno, grande patriota italiano!” scritto dal grande Pietro di Muccio de Quattro, che mi onoro di conoscere da lunghi anni, di cui scrissi un articolo su questa testata che chi vuole può leggere. Con la pubblicazione de “Il golpe bianco di Edgardo Sogno”, in molti, ora, dovrebbero chiedere scusa alla memoria illustre di un grande liberale, Eroe della Resistenza, Medaglia d’ Oro al Valore Militare e autorevole Ambasciatore d’Italia, tanto che la sua vicenda giudiziaria è assimilabile all’affare Dreyfus” proprio perchè in tutt’e due i procedimenti penali furono effettuati arresti ed emessi gravi provvedimenti solo sulla base di documentazioni che poco o nulla avevano a che fare con gli imputati. Ricordiamo che il caso Dreyfus, nel 1894, si verificò in seguito al presunto tradimento di Alfred Dreyfus, un ufficiale francese, ebreo, accusato, condannato ai lavori forzati, e poi riabilitato, per presunto spionaggio a favore dell’Impero Tedesco. Per lui, il grande scrittore Émile Zola pubblicò la famosa lettera al Presidente della Repubblica Félix Faure, intitolata “J’accuse!”. La differenza con la nostra Sorella latina, consiste nel fatto che nella nostra bella Italia non c’è stato un personaggio di altissima levatura come Zola che ebbe il coraggio di prendere le difese di Sogno, costringendolo a farlo in prima persona. E questo perché molti intellettuali italiani, imbalsamati nel loro credo, in quegli anni, erano tutti protesi a svolgere il triste ruolo dei cattivi maestri, ben acculturati nelle farneticazioni deliranti dell’ultracomunismo contestuale al terrorismo (https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/edgardo-sogno-grande-patriota-italiano-1879/)

– da pag.220. “”L’ enigma Andreotti. Da questo punto di vista è opportuno non lasciare cadere un’intuizione avanzata molti anni fa da Massimo Teodori, che ne fece oggetto di relazione nella Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, secondo la quale sarebbe esistito un rapporto organico e strategico tra Andreotti e la Loggia di Gelli. Teodori, allora Deputato radicale, giunse ad affermare, sulla base di considerazioni puramente politiche, che Andreotti fosse il vero capo politico della P2… Dalla fine del 1974 alle elezioni politiche del 1976 la figura politica più esposta fu infatti Moro, che guidò due governi consecutivi, dapprima un bicolore di Dc- Pri, con La Malfa Vicepresidente del consiglio, quindi un monocolore democristiano di pochi mesi per la chiusura anticipata della legislatura. Ma allo stesso Moro, cioè all’altra personalità polare della politica della solidarietà, sfuggiva – al pari del Pci – il fondamento di lungo periodo della traiettoria di Andreotti, il cui riemergere in seguito ai risultati delle urne del 20 giugno 1976 appariva, se non inatteso o casuale, comunque interno ai tradizionali cursus honorum del notabilato democristiano. Conferma delle opposte polarità si ebbe al tempo della resa dei conti, quando un Moro stupefatto dalla violenza terroristica evocata dalla propria azione politica – e ora nelle mani di inattesi e feroci nemici della solidarietà quali le Brigate Rosse – cercò di ricostruire i precedenti del drammatico passo che stava vivendo. Per ben quattro volte, nelle pagine che ci restano negli scritti non epistolari, Moro si interroga sull’ uomo e sulla denuncia che Andreotti aveva fatto di Giannettini quale collaboratore del Sid, nell’intervista al Mondo del giugno 1974, intuendo trattarsi,“invece che di un primo atto liberatorio fatto dall’Onorevole Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un intreccio molto più complicato”. Ma anche se non nei dettagli, la traiettoria dell’avversario vincitore gli era ormai chiara e l’ uomo che è sempre “ha fatto il male nella sua vita” nella circostanza del sequestro gli appariva “indifferente, livido, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, orientato al proposito di sacrificare senza scrupolo “quello che è stato il patrono e realizzatore degli attuali accordi di governo”.
Qui l’invettiva ha il significato del riconoscimento di una condizione conflittuale che agli occhi di Moro sembra svelarsi, nelle strategie e nei metodi, solo nell’inferno del “carcere del popolo”. Nello stesso tempo Moro ci lascia interpretazioni impegnative e drammatiche di un conflitto politico di un’intera fase storica. Dalla fine degli anni ‘60, quando la violenza fu reimmessa nel quadro politico, e in particolare dal 1974, quando disegni diversi presero a fronteggiarsi con nettezza non solo nelle prospettive (ciò che era successo molte volte) ma anche nei metodi di lotta, il partito fu attraversato da tensioni tali da rodere le fondamenta del progetto su cui si era costituito. La tragedia non fu questa – non vi è tragedia della crisi e neanche nella morte di un partito – ma nel fatto che una volta annichilito il progetto moroteo, stante l’ incapacità della parte vincente di assumere il ruolo di classe dirigente nazionale, il conflitto recò la comune rovina delle parti in lotta e si aprì la fase di declino del Paese che ancora ci travaglia.””

Sin qui il libro.

Certamente il saggio di Francesco M. Biscione è un efficace e interessante lavoro di ricerca storica, molto ben documentato.
Sin da subito si entra nel vivo di questo «quarto grado di giudizio» su uno dei misteri più cupi della Repubblica.
È soprattutto uno spaccato di verità, mezzo secolo dopo quel 1970 così denso di eventi storici determinanti, susseguitisi uno dopo l’altro.
È l’anno successivo alla Strage di Piazza Fontana, a Milano, del 12 novembre 1969, per il quale, si disse: “Che l’Italia aveva perso la sua innocenza”.
Il 1970, è l’anno di importanti eventi di alta democrazia, come l’anno dello Statuto dei lavoratori e della Legge sul divorzio, come anche di eventi di storia nebulosa, come la Rivolta di Reggio Calabria, la Strage di Gioia Tauro e anche del Golpe Borghese, in trattazione.
Eventi, questi, che oggi sembrano così distanti e sbiaditi ma che hanno definito ciò che siamo oggi, come società e come stato democratico.
Fatti che andrebbero però studiati con maggiore attenzione e, soprattutto, riscoperti a favore del grande pubblico, e soprattutto dei giovani, vero unico faro di Luce del futuro.

Back to top button
SKIN:
STICKY