Roma, 17 ottobre 2022 – Carlo Donat-Cattin è Vicesegretario della Democrazia cristiana quando, nella primavera del 1980, si scopre che suo figlio Marco milita ai vertici di Prima Linea, una delle principali organizzazioni terroristiche di sinistra attive negli anni di piombo.
La notizia fa da detonatore a uno dei piú gravi scandali della storia repubblicana, che coinvolge il Presidente del Consiglio Francesco Cossiga.
Al contempo il dolore privato della famiglia Donat-Cattin e il percorso di Marco, comune a molti altri giovani, mettono sotto gli occhi di tutti lo strappo senza rimedio che si è consumato nel corso degli anni Settanta.
Attraverso questa storia, che è di padri e di figli, il terrorismo appare come una delle forme che assume il conflitto generazionale, una sorta di resa dei conti che ha le sue radici nelle caratteristiche e nei limiti di quegli orribili anni.
A distanza di quarant’anni, spenti da tempo i clamori, il caso ci appare una storia in grado di fotografare, in un’ unica immagine, il dramma del terrorismo e dell’Italia.
Iniziamo a leggere parte del libro di Monica Galfrè ( Docente di storia contemporanea all’Università di Firenze), pubblicato da due mesi.
– “”È il 10 Febbraio 1984 e a Roma è in corso un’udienza del cosiddetto “7 Aprile”, il processo forse più emblematico degli anni di piombo, che vede alla sbarra molti membri dell’Autonomia Operaia. Da più di mezz’ora l’imputato sta parlando della sua militanza nell’estremismo torinese tra il 1974 e il 1976, poco prima del salto alla lotta armata; nonostante i suoi sforzi, non riesce a farsi capire. Apre parentesi, usa perifrasi… Il Presidente della Corte non tarda a dare segni di impazienza. “Io vorrei che si uscisse fuori dal generico”, lo riprende più volte. Poi sbotta. “Quello che mi interessa è un discorso che concerne Prima linea, le Brigate Rosse, le organizzazioni armate. Io faccio un processo. Non divaghiamo – conclude – sono stati anni della nostra vita, non solo della sua, ma della vita del Paese”. Di fronte al Giudice c’è Marco Donat-Cattin, figlio di Carlo, cioè di uno dei politici più influenti del dopoguerra, molte volte Ministro, esponente di punta della DC, il partito che da trentacinque anni si identifica o quasi con lo Stato. Quattro anni prima, nel maggio 1980, la notizia che Marco è un dirigente di Prima linea,responsabile di gravissimi attentati, si intreccia uno dei peggiori scandali della storia repubblicana. Sono chiamati in causa nientemeno che il Presidente del Consiglio Francesco Cossiga, accusato di aver passato informazioni riservate a Donat-Cattin, che in quel momento è Vicesegretario del suo stesso partito, favorendo così la fuga del figlio. Il coinvolgimento dei vertici del servizio segreto civile, l’insieme del mondo dell’informazione, dilata gli scenari e ne rende indefiniti i contorni, alimentando illazioni, allusioni, ipotesi delle più diverse e fantasiose; i protagonisti principali di questa vicenda passano tutti al vaglio della giustizia. Marco, che subito dopo la cattura decide di collaborare, subisce una serie infinita di processi. Il vice capo del Sisde Silvano Russomanno e il giornalista de “Il Messaggero” Fabio Isman sono processati per direttissima. Per la prima volta, il Capo di un Governo italiano è giudicato dalla Commissione per i procedimenti di accusa e poi dal Parlamento riunito, che discutono ampiamente non solo la posizione di Cossiga, ma anche quella di Donat-Cattin padre. Non meno temibile per i due consumati uomini politici il grande processo mediatico al quale il Paese, messo in ginocchio da dieci anni di terrorismo, li sottopone. Dopo una breve eclissi, mentre Marco sconta la sua pena, entrambi rientrano però nella politica attiva,con responsabilità di rilievo. Nel 1985 Cossiga è eletto addirittura Presidente della Repubblica… Nel 2007 Cossiga stesso ormai pienamente identificatosi nel ruolo di “picconatore”, ha ammesso le responsabilità che aveva fino allora negato, aggiungendovi gravi rivelazioni che non hanno mancato di scatenare una lunga catena di polemiche.””
““Il figlio di Donat-Cattin fa parte di Prima linea”. È questo il titolo che l’edizione pomeridiana di “Paese Sera” spara in prima pagina mercoledì 7 maggio 1980. A tirare in mezzo Marco Donat-Cattin è il brigatista Patrizio Peci, il primo grande pentito del terrorismo italiano. I verbali dei suoi interrogatori, pur vincolati al segreto istruttorio, sono già in parte trapelati sulla stampa; a partire dal 4 maggio, “Il Messaggero”addirittura ha cominciato a pubblicarne ampi stralci. Ma il figlio dell’importante esponente democristiano, prima di quel pomeriggio, non era ancora saltato fuori. Il clamore è immediato e dal giorno dopo se ne parla ovunque. Per un Paese tormentato da 10 anni di terrorismo si tratta di un vero e proprio shock… Carlo Donat-Cattin, profondamente cattolico, militante nella resistenza bianca, incarna il passaggio dal buio del fascismo alle speranze della democrazia. Sindacalista, esponente di spicco della sinistra sociale, fermamente anticomunista, Ministro del lavoro durante l’autunno caldo, dal 1978 Vice segretario della DC, cioè del partito che da trentacinque anni si identifica o quasi con lo Stato. Pochi mesi prima dello scandalo scrive di suo pugno il Preambolo, il documento che archivia definitivamente il compromesso storico con il PCI e rilancia l’alleanza con il PSI. Marco, nato nel 1953, è l’ultimo dei suoi quattro figli e da tempo ha rotto i rapporti con la famiglia, salvo contatti saltuari con la madre e la sorella… Sono passati due anni precisi dal dramma di Moro e da allora l’allarme è cresciuto di giorno in giorno. Il 1980 può essere considerato il peggiore di tutti gli anni di piombo, almeno in termini di vittime, ma è anche il momento di un primo cambio di marcia. Proprio grazie ai pentiti si comincia a “intravedere qualche squarcio di luce”, afferma il Segretario della Democrazia cristiana Flaminio Piccoli. E invece sul maggiore partito italiano, e sul Paese intero, si abbatte questo nuovo colpo. Il caso di Marco Donat-Cattin sembra confermare quanto sia esteso e radicato il fenomeno eversivo tanto da smentire ogni ipotesi netta sulle sue matrici sociali e culturali… All’interno della DC si mormora qualcosa già da tempo. Il Presidente del Consiglio Francesco Cossiga, di lì a poco coinvolto nello scandalo, allude a un pettegolezzo generale cioè alla militanza del ragazzo nelle file dell’estremismo. Il padre ammette invece di avere avuto dei sospetti, “che poteva anche essere droga o malavita”. “Fino a quei giorni, per me” – ha scritto – “mio figlio non era un terrorista, non avevo ragione di ritenerlo tale”… “Ripensandoci oggi, credo che gli unici a Torino a non sapere come stessero le cose a proposito di Marco Donat-Cattin fossimo noi magistrati” – ha scritto Giancarlo Caselli che guida l’inchiesta. “Nessuno – né la Polizia né i Carabinieri – ci avevano mai accennato nulla”. L’affermazione di Caselli non intende alimentare, ma viceversa ridimensionare il mistero. Questo accavallarsi convulso di notizie è il terreno di coltura del caso Donat-Cattin, che diventa tale perchè si intreccia ad altri due clamorosi scandali. Il primo, che coinvolge il mondo dell’informazione e dei servizi segreti, riguarda la pubblicazione su “Il Messaggero” dei verbali di Patrizio Peci privi però di accenni al giovane Donat-Cattin, che il giornalista Fabio Isman avrebbe illegittimamente ricevuto da Silvano Russomanno, Vice capo dei servizi segreti civili riformati nel 1977. Il secondo scandalo investe niente meno che il Presidente del Consiglio Francesco Cossiga, accusato di aver passato a Carlo Donat-Cattin delle informazioni riservate sul figlio. Un amico di questi, pentitosi subito dopo l’arresto, lo rivela gli inquirenti. Si chiama Roberto Sandalo… Una volta uscita la notizia, Donat-Cattin si rinchiude nel suo ufficio romano, ordinando al segretario di dire che è partito per Torino. “Mi conosco bene”, avrebbe detto, “se apro bocca può scapparmi qualche parola di troppo”.””
– da pag.156. “”Capitolo quinto: A conti fatti. Una vita contro… Torniamo alla sera del 27 Febbraio 1981, quando Marco affronta il suo primo interrogatorio. Riservandosi di trattare a parte i singoli capi di imputazione, gli inquirenti gli lasciano la possibilità di ripercorrere autonomamente la parabola della sua storia, dagli esordi all’arresto. Seguiranno, sia in fase istruttoria che dibattimentale, molte altre deposizioni più significative. Ma la ricostruzione che egli fa lì d’acchito – alla quale ha comunque avuto modo di pensare da quando è stato arrestato – ha una sua importanza… La deposizione iniziale del giovane Donat-Cattin è innanzitutto la storia di una crisi, di cui si comincia a parlare già nella seconda delle complessive dodici pagine. Una crisi che traccia una linea di demarcazione fra una sorta di purezza degli inizi e la degenerazione successiva. In dibattimento, due anni dopo, nel luglio 1983 dirà: “Tutto questo nasce da sogni e speranze che molti giovani avevano in quel periodo di giustizia sociale. Sogni che per molti di noi si sono trasformati in incubi. Speranze che alla fine si sono dimostrate solo disperazione”. Ma nei primi interrogatori invece di questi registri poetici, usa un linguaggio più tecnico e puntuale. Come in molti altri compagni di Prima linea, Marco individua l’inizio del suo percorso politico nella militanza in Lotta Continua – il più popolare dei gruppi extraparlamentari che nasce proprio a Torino nel 1969 – di cui però dice poco o niente, se non ché ne è uscito nel 1973. Indica poi nel 1975, che corrisponde all’apogeo dell’autonomia operaia, la data di avvio del dibattito con spezzoni del disciolto Potere Operaio e del Movimento Rivoluzionario, confluito infine nella sua adesione ai Comitati Comunisti per il potere operaio… A questo punto i Magistrati che conducono l’interrogatorio prendono in mano le redini e passano al capo di imputazione più grave, decisivo ai fini dell’estradizione, l’omicidio Alessandrini, che Donat-Cattin nel suo breve profilo non ha neanche ricordato.””
– da pag.215. “”Uccidere ed essere uccisi. – È una mattina gelida e grigia, il tipico gennaio milanese, ma per fortuna non piove. Nella casa in via dei Cinquecento alle 7 di quel 29 gennaio 1979 c’è movimento. È probabile che vada davvero in porto l’operazione Alex, pronta ormai da tempo e saltata pochi giorni prima per un imprevisto. Ma non c’è niente di sicuro. Le lunghe ricognizioni hanno indotto a privilegiare Emilio Alessandrini rispetto ad altri magistrati. Sono molti i punti deboli dei suoi movimenti. Non si può però prevedere tutto al millimetro, non si sa quale macchina usa, se la sua o quella di sua moglie. Nei giorni precedenti Marco è stato malato, si è beccato l’influenza, solo oggi si è svegliato senza febbre. Non c’era neanche alla riunione della sera prima, quando si è fatto il punto e si sono distribuite le armi. In ogni caso è stato deciso che la cosa si farà anche se manca qualcuno. La cosa va fatta. È da molto tempo che a Milano non si batte un colpo, e dopo Moro tutto è precipitato, non si può rimandare oltre. L’omicidio politico ormai è una strada obbligata anche per Prima Linea, che pure continua a insistere sulla sua diversità dalle Brigate Rosse. Marco deve e vuole partecipare. Fino ad allora le armi le ha maneggiate, non è certo stato a guardare, ma sparare a freddo contro qualcuno è un’altra cosa e sa che quel nodo prima o poi va affrontato; all’interno dell’organizzazione chi ha responsabilità politiche si deve assumere anche quel tipo di responsabilità militare. Si rischia una spaccatura tra chi spinge per una struttura più rigida ed è disposto a gestire l’azione in autonomia, e chi, come lui, vorrebbe mantenere il modello delle origini, legato strettamente al movimento. Esserci significa non lasciare la parola ai falchi. Quella mattina, in via dei Cinquecento, Marco si prepara per l’azione insieme a Michele Viscardi, che la sera prima ha dormito lì. Ha l’obbligo di usare il giubbotto antiproiettile, nonostante lui lo detesti con tutte le sue forze. Ciascuno porta addosso la sua dotazione di armi,sono tutti belli imbottiti. Viscardi ha un Mab con la canna in parte tagliata, che sbuca appena dall’impermeabile, una bomba a mano tipo ananas, un fumogeno, una pistola Beretta M 51 calibro 9 con parecchi caricatori di riserva. Marco ha una 357 Magnum Ruger 4 pollici, una Colt Government, una bomba a mano SRCM… Donat-Cattin e Segio appoggiano la schiena a un’auto vicino a un’edicola chiusa di viale Umbria, in prossimità dell’incrocio dove le automobili dopo la svolta rimangono inevitabilmente bloccate tra due semafori, e aspettano che passi la macchina di Alessandrini. Viscardi e Mazzola, anche lui equipaggiato con armi, bomba a mano e fumogeno, sono sul marciapiede, Russo Palombi nella 128 con il motore acceso. Hanno scartato altre ipotesi tutte ugualmente impraticabili: sotto casa Alessandrini è quasi sempre con il figlio e spesso c’è qualcuno affacciato alle finestre; di fronte alla scuola è una follia, oltretutto ci sono sempre dei Vigili armati, e Marco ha insistito per lasciar perdere. I minuti sembrano eterni. Quando arriva la R 5 di Alessandrini e passa il primo semaforo fermandosi al secondo, Segio dà ai compagni il segnale convenuto – si tocca il berretto – e rapidamente si avvicina alla portiera sinistra insieme a Marco. Prima Linea preferisce dividere le responsabilità stabilendo che si sia sempre in due a colpire, il comandante Alberto ha chiesto di non essere il primo, non se la sente. Segio spara tre colpi con la 38 special. Poi lui altri tre con la 357 Ruger, o almeno così gli pare, la testa ronza, in bocca c’è sapore di metallo, difficile ricordare con esattezza. Le pistole sono caricate in modo da ottenere il massimo risultato, secondo le indicazioni di Segio, non certo di Donat-Cattin, che di balistica sa poco o niente. Prima le pallottole perforanti, necessarie quando c’è un’auto di mezzo, che rischiano però di attraversare l’obiettivo e di colpire i passanti. Poi i proiettili con la testa più morbida. Nel frattempo Viscardi si porta al centro della strada e blocca il traffico, consentendo agli altri di raggiungere la 128. E prima di salirvi lancia il fumogeno acquistato in un negozio di nautica da Marco, mentre Mazzola non riesce a togliere la linguetta al suo. Nell’atmosfera ovattata e irreale creata dal fumo – che gli spettatori casuali credono sia di una bomba – l’automobile si defila senza intoppi e dopo poche centinaia di metri raggiunge uno spiazzo nei pressi di un distributore di benzina in via Tertulliano. In una via laterale sono state lasciate delle biciclette tipo Graziella per la fuga, ma sullo stradone di viale Puglia passa subito l’autobus e tutti lo prendono al volo, eccetto Mazzola che se ne va a piedi. Meno male perché le biciclette sono sparite, ironia della sorte qualcuno deve averle rubate.””
– da pag.229. “”Se pur nell’ambito di una generale campagna contro la Magistratura, su cui le organizzazioni sono complessivamente d’accordo, l’omicidio Alessandrini è deciso dal comando milanese e ha le sue motivazioni più stringenti in ciò di cui il magistrato si sta occupando nel capoluogo lombardo. Dopo aver individuato la pista neofascista e il coinvolgimento degli apparati deviati dello Stato nella strage di piazza Fontana, a partire dalla metà degli anni ‘70 la sua attenzione si rivolge contro le organizzazioni comuniste rivoluzionarie. È lui a firmare l’ordine di cattura di Walter Alasia, il ragazzo di Sesto San Giovanni da poco entrato nelle Br che nel dicembre 1976 è ucciso in circostanze poco chiare, dopo aver aperto il fuoco contro i poliziotti venuti ad arrestarlo nella casa dei genitori; al suo funerale, molto partecipato dall’Autonomia Operaia, si grida – tra le altre cose – “Alessandrini, adesso tocca a te”. Prima linea è sicura che Alessandrini si stia dedicando ad un’ampia indagine sui rapporti tra l’autonomia e le eversioni, sulle orme del Sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero, che non a caso di lì a poco, il 7 Aprile, avrebbe incriminato di terrorismo il mondo dell’Autonomia Pperaia in base al cosiddetto “teorema Calogero”, con il consenso del Pci. Sicuramente a Milano il giovane Magistrato sta mettendo a punto qualcosa di nuovo; si è parlato di centralizzazione, di una banca dati, anche se nel gennaio 1979, tutto è ancora in fieri… Fin dal suo primo interrogatorio, la sera del 27 febbraio 1981, Marco assume una posizione molto precisa sull’omicidio Alessandrini, che rappresenta il capo di imputazione più grave a suo carico, determinante ai fini dell’estradizione. Si dichiara disponibile a raccontare quello che sa, premettendo però che si tratta di una vicenda che gli pesa “molto dolorosamente”, molto più delle altre, tanto da non essere mai riuscito a parlarne con nessuno. “Al Sandalo parlavo praticamente di tutto, ma dell’ omicidio Alessandrini non gli dissi quasi nulla nonostante la sua insistenza”.
– da pag.273. “”Nel giugno 1987 Marco ottiene infine la libertà condizionale e alla fine dell’anno può lasciare definitivamente il carcere di Brescia, in un clima in cui l’opinione pubblica non pare ancora del tutto pronta ad accettare gli effetti della legge sui pentiti, tantomeno se riguardano il figlio di un politico in vista. Senza grandi clamori, lontano da tutti i riflettori, si chiude la sua storia carceraria. È un nuovo inizio. Pochi mesi prima ha avuto il secondo figlio ed è ancora giovane.
Epilogo. È il 20 giugno 1988, domenica, è quasi mezzanotte e a bordo di una vecchia BMW Marco sta raggiungendo Roma, dove ha cominciato ad affiancare il fratello, impresario teatrale, nella gestione del “Giulio Cesare”. Ha trascorso il fine settimana a Brescia, con la moglie e il figlio di pochi mesi, anche se dice che le cose tra loro si sono un po’ guastate. Nel pomeriggio prima di partire si è visto con Michele Viscardi, ex compagno di militanza, anche lui pentito e recuperato. Sull’autostrada Serenissima Milano-Venezia, all’altezza del casello Verona sud, Marco si trova coinvolto in un tamponamento ed è costretto a fermarsi. Vede una donna che è uscita dall’auto e sta chiedendo aiuto, il marito è rimasto ferito. Marco la raggiunge ed insieme tentano di bloccare le altre macchine segnalando l’incidente. Si sbracciano. Urlano. Ma il buio, gli abbagli dei fanali, i rombi dei motori confondono tutto. Dal caos sbuca una Thema a forte velocità e li prende in pieno, prima di schiantarsi e incendiarsi. Sollevati, catapultati e trascinati per centinaia di metri, li uccide sul colpo. Chissà se e cosa ha il tempo di pensare, Marco, è tutto così lontano, ora, gli spari, i morti, lo scandalo, il carcere. Sono voci sempre più flebili, un brusio indistinto, prima che cali timidamente il sipario. È un attimo tutto, poi più niente. La morte inghiotte tutto. Rimane il dolore livido di una madre e pietrificato di un padre. “Un destino tremendo, per questo mio figlio”. “Sono rimasto – scrive Carlo Donat-Cattin a Cossiga – in condizioni da non saper far null’altro che le cose meccanicamente conseguenti. La fede è faticosa per la mia logorata umanità: eppure tutto è grazia. La prova più problematica è quella di mia moglie: un figlio ancora giovane, ma il figlio che vivo lacera il cuore, viene ripreso giorno per giorno, per anni di carcere (tutti quelli stabiliti, senza privilegi neppure consentite condizionali), recuperato da un amore senza confini”. “La morte ha riportato Marco a casa”, sussurra qualcuno il giorno del funerale. È un’affermazione meno banale di quanto sembri. Casa significa molte cose, il ritorno in seno alla famiglia, la riconciliazione, la pietà dopo la morte; una vicenda carica di lutti e di dolore che ritorna a essere privata dopo essere divenuta pubblica, che traccia la parabola di una generazione inquieta, e con essa, il dramma di un Paese. Una storia italiana.””
Sin qui parti del libro.
Ora come di consueto integrazioni commenti e valutazioni.
Nell’aprile 2019, sull’argomento leggiamo un interessante articolo di Antonio Ferrari su “Il Corriere della Sera” che seguì per quel giornale i grandi fatti di quell’epoca.“”Devo dire che quella data di 40 anni fa, 7 aprile 1979, che segna la definitiva frattura nel mondo dell’estremismo e del terrorismo rosso, con la scoperta dei legami tra la sinistra estrema degli intellettuali con il vezzo dell’eversione e i gruppi armati, a cominciare dalle BR, mi provoca sempre reazioni ed emozioni… La notizia era davvero clamorosa. Era finito in manette il vertice accademico della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, a cominciare dal barone Toni Negri, dai suoi assistenti Alisa del Re e Luciano Ferrari Bravo, e da numerosi personaggi dell’ultrasinistra, tra i quali Oreste Scalzone e il giornalista Giuseppe Nicotri. Che Negri fosse l’ispiratore-capo di una stagione di violenza sociale non c’erano dubbi. Ora, grazie alla coraggiosa inchiesta del Sostituto Procuratore della Repubblica di Padova Pietro Calogero era insomma partita l’offensiva giudiziaria contro i vertici dell’«Autonomia Operaia Organizzata», denunciando i suoi legami con il terrorismo. All’inizio si parlò di dirette connessioni con le BR, e si ipotizzò che Negri facesse parte della direzione strategica. C’era del vero, ma c’erano anche connessioni non suffragate da prove definitive. Il P.C.I. di Enrico Berlinguer rispettò e sostenne le decisioni della Magistratura. Anche questo contribuì all’importante e decisiva frattura nella sinistra italiana. Mai, in Italia, dove facevo l’inviato da alcuni anni, mi era capitato di trovarmi in un groviglio così complicato. Avevo capito, da subito, una cosa. Calogero, con la sua intuizione e la sua determinazione era riuscito, in qualche modo, a cogliere nel segno, andando a penetrare (sicuramente a raggiungere) intoccabili santuari del potere. Ero sicuro che, prima o poi, il Giudice ne avrebbe pagato le conseguenze. Non mi sbagliavo. Per fortuna nulla di irreparabile avvenne, tranne il fatto che nel 1978 furono esplosi vari colpi di pistola contro le finestre della sua abitazione…””
Tornando al grande Magistrato Pietro Calogero affermo che ho avuto il piacere di conoscerLo quale Procuratore Capo di Padova e poi Procuratore Generale presso la Corte d Appello di Venezia durante il mio triennio di comando della Legione CC Veneto in Padova (2006/09) con interessanti conversazioni.
Concludo: che dire della sentita necessità che si chiariscano tutti questi spaventosi intrecci e che si approfondisca una volte per tutte il gran tema delle aree della contiguità mai scoperte, cioè quegli ambiti della società, della politica, del sindacato e della cultura in cui l’ultrasinistra ha sempre goduto di forte simpatia e grande sostegno?
Certo, sono troppe le amnesie, eccessiva la superficialità con cui la gente è indotta da falsi profeti a ragionare di terrorismi. Sì, questa è la storia infinita della tragica eterna pagina del terrorismo! Non si può non chiudere questa carrellata, in verità tanto ma tanto triste, perché si argomenta di vere e proprie sconfitte dello Stato nel perseguimento della Verità Vera, rendendo un doveroso commosso omaggio a tutte le vittime dei terrorismi e delle mafie di ogni tempo e luogo, in difesa dello Stato e a salvaguardia del bene comune Giustizia!
Purchè Giustizia ci sia… altrimenti è inutile morire!!