Accademia di Santa Cecilia – Ultimo Concerto dell’Accademia prima delle ferie estive
Passione spagnola
Roma, 26 luglio – “Buona estate”, proclama con la forza dei suoi strumenti l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia.
Il pubblico presente, rinnovato nell’età, come se la bella stagione facesse scoprire che la musica classica non è quella cosa elitaria, o difficile o qualsiasi altra definizione possa tenere a distanza i giovani, ma un momento di godimento per i sensi, un gioco al risveglio della fantasia, è accorso per l’ultimo concerto prima delle vacanze.
Allettato da un programma di musiche popolari fino al punto da costituire materiale per colonne sonore della pubblicità, ecco dipanarsi il tessuto speciale messo a punto in questa impaginazione curatissima: ecco la forza propulsiva dei crescendo rossiniani nelle Ouverture da “Il Barbiere di Siviglia” e dal “Guillaume Tell,” ecco Uto Ughi, il grande artista del violino venuto in compagnia del proprio Guarneri del Gesù per la celeberrima Romanza in fa maggiore op. 50 di Beethoven, ecco il sinuoso martellante “Boléro” di Ravel, che si carica di tutte le sfumature spagnole e del suo passato gitano, ecco il senso del destino che gioca con le armi della passione d’amore nelle note di Sarasate, che chiede in prestito le arie più belle della “Carmen” a Bizet e ne riveste la sua Suite, fantasia per violino e orchestra. Perché lui, don Pablo de Sarasate, nato a Pamplona sullo scorcio della prima metà dell’800, grande violinista, era ormai la Spagna in tutta Europa e poi nelle Americhe dal Nord al Sud, una sistematica colonizzazione di suoni e modi dai vividi colori della sua terra, lui che si offriva anche all’estro di musicisti come modello.
E quanti omaggi, quante ispirazioni distribuiti a piene mani. Non solo l’”Introduzione e Rondò Capriccioso” di Camille Saint-Saëns, ma pure i Concerti per violino n.1 e 3 e poi la “Symphonie espagnole” di Lalo, le mazurke di Dvořák, e il Concerto n.2 di Bruch ed altri ancora.
Preminente su ogni altra considerazione la qualità altissima del solista, la sua tecnica superba, l’intonazione perfetta che lo faceva spaziare nelle vette superacute e poi la purezza del suono, quella sua indimenticabile dolcezza.
La serata, temperata dal Rossini sinfonico, si potrebbe dire tutta connotata da modalità spagnole, o spagnoleggianti, perché mai come in questo caso, “à la manière de…” diventa la caratteristica propria di chi ha eletto la Spagna come sua ispirazione.
Così quel brano finale, “Boléro”, che doveva servire a Ida Rubinstein, per una ambientazione particolare di una sua performance, lei che era stata musa dei Ballets Russes, prima di lanciarsi in una compagnia autonoma da affidare per intero al suo charme e al suo carisma, lei che era la sintesi perfetta di una fascinazione che va ad di là della perfezione tecnica, che non è un’attrice, né può sbandierare la grande tecnica russa del ballo, ma che è bravissima a donarsi come ispiratrice a letterati e poeti, a coreografi e grandi personalità artistiche tutte emanazioni di quell’operoso milieu parigino dei primi decenni del ‘900. E Ravel che aveva già firmato la “Rhapsody espagnole” (1907), “l’Heure espagnole” (1911) e l’”Alborada del gracioso” (1923), andò ad imbeversi di spirito iberico in un viaggio nei Pirenei e scrisse nel 1927 il suo “Fandango”, poi diventato “Boléro”. Fu la sorella di Nijinski, Bronislava Nijinska a firmare la coreografia, divenuta da allora un classico al quale tutti hanno fatto riferimento, compreso Maurice Béjart. La protagonista, una ballerina gitana danza perdutamente avvinta dalle note sempre più perentorie, su un grande tavolo rotondo, mentre attorno a lei fanno cornice altri ballerini che si lasciano trascinare nelle voluttà della danza. L’Orchestra, affidata alle cure di George Pehlivanian, statunitense, allievo di Lorin Maazel e Pierre Boulez che sta costruendo un’ottima stagione teatrale, assai presente nelle scene liriche italiane, e segnatamente a Palermo anche nelle stagioni sinfoniche nel 2012 e 13, ha seguito carismaticamente le indicazioni dal podio fino all’esplosione del finale travolgente quando tutti gli strumenti entrano freneticamente in campo. È il momento terminale di un concerto che si era aperto sulle note dell’Ouverture da “Il barbiere di Siviglia” che il pesarese aveva scritto per il suo “Aureliano in Palmira” (1813) poi trasvolata con qualche modifica nell’orchestrazione in “Elisabetta, regina d’Inghilterra” e approdata infine nel “Barbiere”. Era pratica abituale farsi autoimprestiti, data anche la velocità che si imponeva ai compositore di completare rapidamente le commissioni. E il “Barbiere” nasceva per le necessità del carnevale romano del 1816, dove fu rappresentata il 20 febbraio al teatro Argentina e fu un tale fiasco da far temere che sarebbe stata seppellita per sempre dai fischi e dagli schiamazzi orchestrati dai sostenitori di Paisiello e del suo vecchio “Barbiere”. Ma la storia racconta un’altra verità, come si sa.
L’Ouverture del “Guillaume Tell”, che era stata composta per il palcoscenico dell’Opéra di Parigi, riflette quel carattere grandioso e epico dell’opera con momenti di lirismo che esplodono poi in un finale di galoppante vivacità.
La serata naturalmente deve in buona parte il successo alla splendida esibizione di Uto Ughi che ha scelto del suo ampio repertorio quei brani di più facile ascolto che, si badi, presuppongono tuttavia grande qualità tecniche come in quell’autentico pezzo di bravura che rappresenta la suite da Carmen di Sarasate.