Eliseo Cultura – Gabriele Lavia venerdì 27 novembre parla di Re Lear
La tragedia del potere
Roma, 22 novembre – Si conclude venerdì 27 novembre alle ore 16.00 al Teatro Eliseo l’ultimo appuntamento offerto al pubblico romano con la tragedia “Re Lear” di William Shakespeare, seminario fortemente voluto dal settore Eliseo Cultura in collaborazione con il MLAC (Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea) dell’Università La Sapienza di Roma diretto dal professore Giuseppe Di Giacomo, che ha avuto tappe rese davvero significative per la presenza dello stesso Di Giacomo, di Nadia Fusini e di Massimo Cacciari.
Ospite d’eccezione, il 27, Gabriele Lavia che all’Eliseo tornerà poi in scena dal 5 al 24 gennaio con “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello.
La “funzione” di Shakespeare nella cultura teatrale mondiale si può per certi versi assimilare ad una grande, immensa antologia tematica cha racconta l’uomo, ne esplora i comportamenti, ne sottolinea le virtù, ne illumina profondamente quei malesseri che fanno parte sia del vivere che della natura dell’uomo stesso. Perfino nelle opere dove più palese sono la destinazione e l’intento, ci sono un’infinità di sottotesti e di possibili reconditi significati che è assai complesso mettere in luce, a meno che non si giochi in una sorta di visione allo specchio e si costruisca un universo parallelo a quello descritto dal Bardo. In ogni caso, l’obiettivo resta sempre puntato sull’uomo e sulle infinite modulazioni del suo animo, dove infinite non vuole connettersi al senso della illimitatezza quanto piuttosto all’estrema varietà di esse.
Gabriele Lavia, che ha sondato con lavoro lungo e accurato – sia da attore che da regista – le più grandi tragedie di Shakespeare, sottolinea come Shakespeare sia il più grande di tutti i tragici, perché in ogni sua opera accende l’obiettivo sul problema dell’essere e del non essere. E annota come, laddove, ad esempio, “Amleto” esplora il territorio di confine tra l’essere ed il non essere, “Macbeth” si arrovella nell’incertezza dell’essere e Otello, vanifica se stesso nell’illusione dell’essere, Re Lear, esprima il declino, la rinuncia dell’essere. Re Lear rinuncia ad essere re per un incompiuto sentimento d’amore verso il suo destino di governante del popolo ed un eccesso di benevolenza verso le figlie e i loro mariti, ma poi vorrebbe esserlo ancora, dopo la cocente delusione conosciuta attraverso il ribaltamento dei valori familiari. Ma è impossibile traversare a ritroso il tempo e gli eventi. Non essere re lo ha condotto verso l’abisso del non essere, dove si installa la signoria della pazzia.
Il rapporto di Gabriele Lavia con Re Lear ha un sapore antico, risale infatti al 1973 la sua prima interpretazione della grande tragedia, sotto la direzione di Giorgio Strehler al Piccolo di Milano. Eppure a 73 anni tornare a fare Re Lear, la tragedia dell’ingratitudine filiale, resta per il grande artista il sogno nel cassetto, che non può più realizzare “perché ce ne sono stati troppi negli ultimi tempi”, tra gli altri quello di Michele Placido. «Chissà se riuscirò più a farlo – dice – perché Re Lear è anziano, ma non vecchissimo: è un uomo ancora in forze che deve riuscire a portare in braccio Cordelia, e se non ci riesce non può essere Re Lear».
In questo incontro con Gabriele Lavia non c’è scena, non c’è regia, c’è solo la pienezza artistica di un grande attore, il pubblico e il testo straordinario di una tragedia “Sono un attore che non ha mai scelto un testo perché volevo fare quella parte, ma cercando sempre la sfida, il confronto con i grandi problemi dell’esistenza che ti propongono i classici: la vita è troppo corta per perdere tempo facendo sciocchezze!”, asserisce Lavia. Questo incontro dove i tre momenti si congiungono in un unicum e, per forza di cose, attore, pubblico e testo si trovano ad interagire, è possibile assistere ad una personale narrazione della grande tragedia, un percorso di lettura, di commento al testo e di pura recitazione. Lavia esplora in profondità alla ricerca dell’essenza e del significato più intimo della tragedia che ancora oggi è attuale, nella consapevolezza che «il teatro è un’arte inafferrabile, eppure il mondo, l’uomo sarebbe diverso se non ci fosse stato il teatro, l’unico luogo in cui l’essere umano assiste alla rappresentazione di se stesso, l’unico in cui quindi può riconoscersi e, nel bene o nel male, prendere coscienza, come del resto accade all’attore ogni volta che dice “io faccio un certo personaggio”».