Teatro dell’Opera – Il barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini
Tutto esaurito in un concertato di buuuh
Roma, 12 febbraio – Horror/gotico e grottesco a braccetto per le vie del tempo, tempo lungo quanto consentono duecento anni di concrezioni, di tagli e ritagli, di auto imprestiti, di tradizioni che si sono ammassate sul divertimento e sull’immediatezza del capolavoro dell’opera buffa per eccellenza, il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, quello che non ha avuto bisogno di una lunghissima Renaissance per ritrovare il pubblico plaudente.
Inserito nel progetto di celebrazioni e festeggiamenti dell’Opera di Roma per il bicentenario della prima accidentata esecuzione avvenuta al Teatro Argentina nel 1816, in occasione del “Carnovale”, come ricorda una lapide commemorativa, l’opera vive di una sua dimensione letteraria (nasce sull’eco del successo teatrale del Figaro di Beaumarchais del 1785).
Oggi, ecco tornare quel Figaro furbo ed avveduto, che fa barba, parrucche e trova mariti alle vedovelle, vestito delle idee di Davide Livermore. Ed ecco il pubblico che si sveglia dal torpore vellutato delle comode poltrone e rinnova la festa dei buuu, degli urli, dei fischi mentre la mano del direttore Donato Renzetti si agita nell’aria suscitando i rapidissimi crescendo. Il fatto è che in contemporanea, un topaccio di fogna con occhi brillantati traversa velocissimo il palcoscenico. Poi balza sullo sfondo e diventa proiezione che segue il tracciato di un mappa, un chiaro riferimento ad un film tratto da un romanzo di Agatha Christie. Il chiasso continua e si irrobustisce quando escono fuori proiezioni in bianco e nero con ritratti pesantemente sottolineati dei dittatori, protagonisti della cronaca recente, come Saddam, ma anche Francisco Franco, il generalissimo, Mussolini, a testa in giù, e poi quelli affidati alla memoria storica, Nicola, zar di tutte le Russie, Robespierre, impettiti e pronti a decorare pareti.
E subito una mano di barbiere armata di pennello insaponato (chi altri se non Figaro stesso?), li prepara per il rito facendo loro saltare la testa, mozzata la quale fuoriesce il gancio di una stampella, mentre sullo schermo il sangue conseguente viene fatto scorrere rosso e brillante da rubinetti aperti. I dittatori servono per storicizzare l’opera, ripercorrendo gli allestimenti dei due secoli, anzi a partire dall’epoca di papà Beaumarchais, alla vigilia della Rivoluzione Francese del 1789. Davide Livermore, che aveva anticipato l’intenzione di una sorta di omaggio a tutte le messe in scena del Barbiere passate, non può certo fermarsi a chiarirlo. Anche perché è davvero difficile comunicare i balletti dei decapitati, la ghigliottina con il cesto per raccogliere teste, anche quella del conte di Amaviva, per diritto di nascita. La protesta si prolunga e la fine della Sinfonia costringe il bravo Renzetti a girarsi verso il pubblico per tentare di calmare le acque, mentre una pasionaria accanita malgrado avanti negli anni, lo rassicura: “Non ce l’abbiamo con lei”.
L’apertura del sipario è un trionfo di maschere grottesche venute a cantar la serenata, è anche l’esordio dei primi costumi che obbediscono alla logica del fantastico-meraviglioso, delle parrucche fantasiose. Questi costumi, bellissimi e irreali, specie quelli creati per la protagonista Rosina, sono piccole opere d’arte che cavalcano i secoli fino agli occhieggiamenti futuristi ed oltre fino alla contemporaneità del pop con televisore rateizzato a vita sul quale tutti si proiettano indifferenti al resto della vita che scorre intorno in un palcoscenico diviso in ambienti verticali, sono la parte più ammirevole quanto a creatività dell’intero spettacolo, e colmano le lacune e le incomprensioni di certe gag che, sinceramente, non fanno ridere proprio nessuno, malgrado gli sforzi dei cantanti, la presenza di un mimo vestito da orso e persino l’intervento del mago Alexander con eleganti trovate un po’ sprecate nella ridondanza dei suggerimenti.
Comunque, è stata una certezza la direzione musicale di Renzetti, anche se a volte, il gusto barocchistico dell’allestimento finiva per giocare su un campo diverso. Chiara Amarù, la migliore in scena, indossa con proprietà il personaggio, poggiando su una buona tecnica e su un bel timbro vocale. Edgardo Rocha ricorda da vicino certi storici tenori del passato. Ha buone capacità recitative e crede nel personaggio che gli è stato affidato, riuscendo a evitare le trappole disseminate nella scrittura rossiniana.
Don Bartolo, Simone Del Savio, costretto a recitare per lo più in carrozzella (In questo allestimento i vecchietti sono degli incalliti rompiscatole) non supera una resa sufficiente a livello vocale.
Tanto esagerato sfarfallio di vesti, di movimenti, di trovate, di clowneschi corpi senza testa a volte appare a scapito delle esibizioni dei cantanti.
A farne le spese, Ildebrando D’arcangelo, prezioso bassbaritono, Don Basilio, qui sacrificato dalla gag cinematografica di Mel Brook nel “Frankenstein junior” che gli impone una rumorosa apertura a scatto di braccia e gambe da grande mutilato.
Lo stesso Figaro, Florian Sampey non risponde alla vivacità del personaggio rossiniano, anzi ne è quasi una fiacca caricatura.
Ma, in un’epoca che ha penalizzato la creatività, molte défaillance appaiono peccatucci veniali e per il Teatro il tutto esaurito al botteghino è il più bel trionfo auspicabile.