Roma, 16 ottobre 2018
Il 1968 ha rappresentato, nel mondo, un momento topico per la società occidentale, e non solo. Ricordiamo la primavera di Praga, il maggio francese, gli assassini negli Usa di Martin Luther King e Bob Kennedy, il continuo fermento giovanile, la carestia in Biafra, piccola repubblica presidenziale creatasi nel sud della Nigeria e scioltasi nel ‘70; in questo contesto, ad ottobre di quell’anno, iniziavano i Giochi della XIX Olimpiade assegnati a Città del Messico non senza qualche polemica per la particolare collocazione geografica della capitale messicana situata a 2400 mt. sopra il livello del mare.
Le competenze medico-scientifiche, applicate allo sport, dell’epoca erano in evoluzione e preoccupava non poco la situazione di doversi esprimere in quelle condizioni, con la rarefazione dell’aria, in discipline di alta resistenza, rispetto magari alle prove che comportavano sforzi intensi ma brevi.
Nel preambolo iniziale anche Città del Messico fu protagonista di una feroce ed incomprensibile repressione da parte dei “granaderos”, i carabinieri messicani, al servizio del capo del governo Gustavo Diaz Ordaz, che sfociò nel massacro di piazza delle Tre Culture dove più di 300 unità, secondo stime non governative, persero la vita.
Gli studenti messicani sin dal mese di luglio, cavalcando il fermento mondiale, occuparono le scuole e le università protestando vivacemente contro il capo del governo, il quale era a capo di un partito che aveva un senso del pluralismo alquanto scarso.
A strage compiuta, la sera del 2 ottobre nel quartiere di Tlatelolco, il mondo dello sport si interrogò molto superficialmente sui fatti accaduti con l’allora capo del Coni Giulio Onesti che firmò, unico dirigente insieme all’australiano Philips, un documento che esprimeva perplessità sul fatto che i Giochi potessero iniziare serenamente; Avery Brundage, presidente del Comitato Olimpico Internazionale, confermò il regolare svolgimento della manifestazione e dal 12 al 27 ottobre l’oblio scese sul disastro di piazza delle Tre Culture e si cominciò a parlare, successivamente a ricordare, del record mondiale di Bob Beamon col suo 8,90 nel salto in lungo, della volata fantastica di Tommie Smith col record mondiale sui 200 mt. primo uomo al mondo a scendere sotto i 20’’, dell’avveniristico Dick Fosbury che vinse l’oro con 2,24 nel salto in alto con la sua rivoluzionaria tecnica di stacco all’indietro, dell’immensa ginnasta cecoslovacca Vera Caslavska, vincitrice di 4 ori, che alla premiazione del concorso alla trave, che la vide seconda dietro un’atleta russa, al momento degli inni piegò il capo e rifiutò di vedere la bandiera rossa con la falce ed il martello che si alzava, in aperto dissenso all’invasione sovietica di due mesi prima a Praga.
I colori azzurri proprio cinquant’anni fa esatti, vissero una due giorni incredibile in atletica leggera col sogno di Giuseppe Gentile che nel salto triplo sfiorò la medaglia d’oro pur avendo ritoccato per ben due volte il primato mondiale.
Il salto triplo, in atletica leggera, è una delle specialità più spettacolari che prevede oltre ad una base di rincorsa elevata anche una forza esplosiva nelle caviglie e robustezza articolare e tendinea, con i primi due stacchi, “hop e step”, da effettuare con la stessa gamba ed il terzo stacco, “jump”, con la gamba opposta.
Il limite del triplo era fermo da otto anni a mt. 17,03, del polacco Schmidt, e nei due giorni di gara fu ritoccato per 5 volte col nostro rappresentante che, in qualificazione, lo portò a mt. 17,10, staccando nettamente il lotto dei partecipanti. Il giorno successivo, al primo salto di finale, Gentile piazzò un balzo di mt. 17,22 pensando di aver risolto il problema della medaglia d’oro. “Onestamente, ho creduto di avercela fatta, dirà poi Gentile, anche perché atterrando ho sentito una fitta alla gamba di stacco ed ho capito che non avrei più potuto saltare così in quella gara”. Per la cronaca il georgiano, allora sovietico, Viktor Saneyev lo superò al terzo salto di un solo centimetro, mt.17,23, poi fu la volta del brasiliano Nelson Prudencio che a sorpresa, al quinto tentativo, sparò mt. 17,27 ed infine all’ultimo dei sei salti programmati il grande acuto di Saneyev che atterrò a mt. 17,39, con Gentile, attanagliato dal dolore alla gamba destra, che si produsse in quattro nulli ed un ultimo balzo disperato a mt. 16,54. La foto che abbiamo scelto, a corredo di questo racconto, è la dimostrazione dell’estrema sofferenza del nostro atleta.
Beppe Gentile, romano, all’epoca 25enne, soprannominato “il gattopardo” per le sue origini siciliane, visse così un’avventura, un sogno, culminata in una medaglia di bronzo in una gara epica che appassionò milioni d’italiani collegati “via satellite”, attraverso l’accorata cronaca di Paolo Rosi e l’anno successivo, nel ’69, Pier Paolo Pasolini lo scelse per il ruolo di Giasone nella “Medea” cinematografica accanto a Maria Callas.
In un anno particolare e come appassionati di sport il Messico ci era entrato in simpatia, teatro successivamente di imprese a noi care ed indimenticabili come il secondo posto nel ’70 di una delle Nazionali di calcio più amate, dietro al grande Brasile di Pelè o come il fantastico record del mondo sui 200 mt. di atletica leggera di Pietro Mennea, nel settembre ’79, con 19’’72 o come il record dell’ora di Francesco Moser, nel gennaio dell’84, che percorse in sessanta minuti 51,151 km.
Lampi di sport, lampi di vita vissuta, lampi di cultura.