Roma, 10 marzo – Parlare ai romanisti di Bruno Conti è come dirgli che il mare è blu e che nel cielo splende il sole. Di lui sanno tutto, perché è una delle leggende della storia giallorossa. Chi tifa per la Magica non può non sapere chi è e chi è stato “Brunoconti”, scritto proprio così, tutto attaccato, come “Giggirriva” per i sardi, visto che fin dal momento del suo esordio in A venne chiamato così per distinguerlo da quell’altro Conti, Paolo, che in quegli anni ’70 difendeva la porta romanista. Insieme a Totti “Brunoconti” è stato l’unico giocatore della Roma ad aver vinto scudetto e Coppa del Mondo. E già questo basterebbe a spiegare la sua grandezza. Ma più che per le vittorie, la gente lo ha amato e lo ama per quel suo essere personaggio in semplicità. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ha scoperto che lui è rimasto sempre Bruno e non si è mai innalzato al livello del Signor Conti, ovvero di uno dei calciatori universalmente più conosciuti di tutti i tempi. Questo perché alle spalle ha sempre avuto una famiglia fatta di principi sani e genuini, che lo hanno aiutato a non montarsi la testa e che spinsero il papà a rifiutare un’offerta dell’Università di Santa Monica, in California, che avendolo visto giocare a baseball nella sua Nettuno volevano portarlo in America. A baseball? Già, perché il piccolo Bruno, come molti dei suoi concittadini, praticava quello sport importato con lo sbarco degli americani e ci riusciva anche bene. Solo che la sua passione era il calcio e il rifiuto del papà davanti al sogno americano gli spalancò le porte della gloria. Dopo i primi passi nel Latina (insieme al futuro laziale Vincenzo D’Amico) e il provino negativo con la Roma di Herrera (che lo scartò perché non aveva il fisico), Bruno venne aggregato alla splendida Primavera di Bravi, che portò allo scudetto e alla Coppa Italia di categoria insieme ai vari Di Bartolomei, Peccenini e Rocca. Intanto sulla panchina della prima squadra era arrivato Liedholm, che stravedeva per quel ragazzo dalla tecnica eccezionale, al punto da farlo esordire in A in Roma-Torino 0-0 del 10-2-1974. Fu il primo passo di una carriera eccezionale. Dopo i primi approcci con la Roma, nel 1975 venne mandato “a farsi le ossa” in B, col Genoa, dove strabiliò i tifosi rossoblù con finte e controfinte e dove conobbe Roberto Pruzzo, con cui in seguito avrebbe costituito una coppia strepitosa anche in giallorosso. Dopo un breve ritorno di due anni e un altro campionato sabbatico in Liguria (dove tornò nell’estate ’78 proprio come contropartita dell’affare Pruzzo, che lui stesso aveva spinto a venire a Roma) tornò definitivamente nella Capitale per cominciare la sua escalation verso la gloria. Tra cross al bacio per la testa del bomber, gol al volo di sinistro su lancio di cinquanta metri di Di Bartolomei (uno schema che i due, amicissimi, portavano avanti dai tempi della Primavera) e serpentine ubriacanti entrò nel cuore dei tifosi e conquistò la nazionale, con la quale si consacrò nei trionfali Mondiali di Spagna ’82. Qui servì Paolo Rossi come meglio non avrebbe potuto e Pelè lo indicò come il migliore di tutti. Il signor “Nettuno” divenne così “Marazico”, ovvero il concentrato in campo dei due giocatori più forti del momento: l’argentino Maradona e il brasiliano Zico. Ma il bello era appena cominciato, visto che nel campionato post-Mondiale la sua Roma avrebbe vinto il secondo scudetto della storia, con lui in campo con la maglia n.7 o n.11, a seconda delle tante scaramanzie di Liedholm. Dopo un avvio di stagione con qualche polemiche (qualcuno lo accusava di scarso rendimento, ma come gli altri anche lui doveva solo riprendersi dalla sbornia spagnola) Bruno riprese a volare e tutto finì in gloria con i gavettoni di Genova. Era l’8 maggio 1983 e l’1-1 col Genoa aveva appena consacrato la Roma Campione d’Italia. Che spettacolo vederlo in piedi sulle panche dello spogliatoio del Luigi Ferraris con la sigaretta in bocca, il dorso nudo e l’asciugamano legato in vita a lanciare i cori della curva. E che rammarico, quel 30 maggio del 1984, quando a sbagliare uno dei rigori col Liverpool fu proprio lui, l’idolo di sempre. No, lui non se lo meritava proprio di subire una delusione del genere. Ma andò così e la gente non gliene fece mai una colpa, com’era giusto che fosse. Negli anni a seguire Bruno fu anche il capitano della sua Roma, fascia che, però, lasciò dopo una squalifica di sei giornate rimediata per aver camminato sul corpo di un avversario a terra che, poco prima, era intervenuto troppo duramente sulle ginocchia già martoriate dell’amico Ancelotti. Dopo il periodo con Eriksson (in cui giocò anche con uno strano n.6 sulle spalle, quando le maglie andavano ancora dalla 1 alla 11), il terzo ritorno di Liedholm e la parentesi Radice, ecco le incomprensioni con Ottavio Bianchi, che lo spinsero a lasciare il calcio alla fine della stagione 1990-91, a trentasei anni. La Romaperse la Coppa Uefa nella finale di ritorno con l’Inter esattamente la sera prima del giorno fissato per la sua festa d’addio. Ma nonostante ciò, a sole ventiquattro ore di distanza dalla sconfitta, l’Olimpico si riempì di nuovo per tributare il suo omaggio ad uno dei più grandi campioni che avevano calcato il suo prato. Fu così che ottantamila persone dissero grazie a quel folletto del calcio chiamato Bruno Conti, che poi della Roma sarebbe stato anche splendido dirigente del settore giovanile, allenatore e dirigente della prima squadra. Tanti auguri, piccolo grande uomo.