Roma, 18 giugno – Narra una delle tante leggende metropolitane della Capitale che durante la seconda stagione di Zeman sulla panchina della Roma il presidente Franco Sensi non fosse proprio più tanto contento delle alchimie tattiche del boemo. Con lui non vincerò mai, sembra che pensasse e qualcuno dei tanti consiglieri che gli giravano intorno gli disse che se avesse davvero voluto conquistare lo scudetto avrebbe dovuto fare solo una cosa: prendere Capello come allenatore. Sensi non era convintissimo della possibilità, anche perché quest’ultimo pretendeva un ingaggio alto e la costruzione di una squadra di campioni, con le conseguenti ingenti spese che ciò comportava. Ma dopo il rovescio casalingo con l’Inter di inizio maggio (4-5 per i nerazzurri) decise che era ora di dare retta a quel suggerimento. Si vada con Capello, dunque e addio al boemo. Capello, che nella Capitale, in maglia giallorossa, aveva già vissuto un’esperienza da calciatore dal 1967 (quando era arrivato dalla Spal) al 1970 (quando era stato protagonista della triplice cessione alla Juve insieme a Spinosi e Landini che aveva provocato le proteste di piazza della tifoseria), arrivò, vide (nel primo campionato, 1999-00, chiuso al sesto posto) e vinse, conquistando il tricolore con la Roma il 17 giugno 2001, nel giorno precedente al suo 55mo compleanno. Un successo che ripagò Sensi della scelta che aveva fatto e che è rimasto ancora ineguagliato da allora ad oggi.
Ecco, questo è Fabio Capello da Pieris, terra di confine e di italianità sentita dentro e da sbattere in faccia a quelli che invece si sentono più sloveni o austriaci. Dotato come pochi di testa e piedi (suo il gol storico che permise all’Italia di vincere per la prima volta a Wembley, in casa dell’Inghilterra), di sapienza e carattere, di bravura tattica e … mascellone. Già, il mascellone, quello che spinge in avanti quando capisce che è arrivato il momento di andare a vincere. Perché tutto si può dire di Capello: che non sia simpatico, che sia un sergente di ferro, che sia attaccato ai soldi (chi non lo è?), che sia un voltagabbana (aveva detto “mai alla Juve” quando allenava la Roma, ma poi andò proprio lì), che sia troppo amico dei potenti, anche di quelli non proprio limpidi. Ma non che non sia un vincente. Perché se pensi a Capello pensi subito alla vittoria, anche se questa gli è scappata quando si è dato alle nazionali come Inghilterra e Russia.
Sulle panchine dei club, però, è stato un’ira di Dio: 4 scudetti, 1 Coppa dei Campioni, 1 Supercoppa Europea e 3 Supercoppe Italiane con il Milan; 1 scudetto e 1 Supercoppa Italiana con la Roma; 2 campionati spagnoli con il Real Madrid e lo scudetto revocato con la Juve, con la quale aveva vinto 3 scudetti da calciatore, che si aggiungono a quello della stella vinto con il Milan e alle Coppe Italia conquistate con quest’ultimo e con la Roma. Un palmares invidiabile e che ben spiega perché tutti lo reputino un vincente.