Roma, 1 gennaio – La Dakar 2016 prenderà il via anche quest’anno dall’Argentina, perché dall’ormai lontano 2009 si corre in Sudamerica e non più tra le dune dei deserto.
I terroristi islamici, nel 2008, minacciarono seriamente i partecipanti e gli organizzatori decisero che era tempo di lasciare il Continente Nero per trasferire tutto il baraccone nel sub-continente sudamericano, che riserva sorprese (gradite o no) dietro ad ogni angolo, ma che, almeno finora, sembra al riparo dalla minaccia dell’Islam.
Ma se si corre nei deserti, tra le Ande e le Pampas del Sudamerica perché chiamarla ancora Dakar?
In effetti è un anacronistico non senso che, ormai, andrebbe eliminato, anche se gli organizzatori sanno bene che cambiare nome alla corsa significherebbe svuotarla completamente del suo significato e delle sue tradizioni. Quelle che nei più di trent’anni di vita della corsa di motori più pericolosa e folle del mondo l’hanno resa affascinante agli occhi dei guidatori più spericolati e degli amanti dell’avventura. Basti ricordare che in tutta la sua storia la Dakar ha ucciso ben 54 persone tra piloti, addetti ai lavori e pubblico e che per questo, in termini di pericolosità, è seconda solo al motociclistico Tourist Trophy, che detiene il non invidiabile primato di 226 vittime.
Cosa spinge, dunque, tanti piloti a rischiare la vita nei 9.300 chilometri sui quali si snoderà la corsa quest’anno partendo da Buenos Aires per, poi, concludersi a Rosario dopo 15 giorni zeppi di pericoli? Il fascino della competizione, certo, ma anche la voglia di cimentarsi in una gara dura, in una lotta contro il tempo, ma soprattutto contro i limiti umani e meccanici dei mezzi. Questo è la Dakar, indipendentemente dal fatto che si corra in Africa o in Sudamerica: una corsa che si snoda su quella sottile strada che separa il coraggio dall’incoscienza e ogni concorrente iscritto conosce bene i rischi a cui va incontro.
La Dakar, dal percorso vario e mutevole di edizione in edizione, è infatti un rally estremo per vetture a quattro e due ruote, che da sempre si disputata a gennaio.
Il vecchio nome Parigi-Dakar era stato dato perché la partenza era dalla capitale francese e l’arrivo in quella senegalese. Così è stato per un quindicennio, fino al 1995, anno dal quale il percorso ha iniziato ad essere modificato di volta in volta.
La corsa nacque da un’idea del francese Thierry Sabine, che nel 1977, durante il rally estremo tra Abidjan e Nizza, si perse, rimanendo tre giorni nel deserto del Ténéré prima di essere tratto in salvo. In quei tre giorni solitari Sabine decise di provare ad organizzare una corsa ad orientamento, con partenza dalla sua amata Parigi. Il sogno diventò presto realtà quando, nel giorno di Santo Stefano del 1978, numerosi equipaggi, dotati esclusivamente di rudimentali bussole, partirono dalla capitale francese alla volta del Senegal.
La prima Parigi-Dakar fu un successo per l’entusiasmo che suscitò nei partecipanti, anche se la manifestazione fu caratterizzata da innumerevoli problemi tecnici e organizzativi, tanto che i primi sette motociclisti classificati di quell’anno si persero andando a finire in una miniera d’uranio.
Ma la grande visibilità internazionale arrivò nel 1982, quando il figlio dell’allora primo ministro inglese Margareth Thatcher, Mark, si perse nel deserto emulando l’episodio accaduto a Thierry Sabine, tanto che anche lui fu ritrovato dopo tre giorni. La vicenda ebbe talmente tanto risalto sulla stampa e sulle televisioni di tutto il mondo che regalò grande visibilità alla giovane manifestazione motoristica, alla quale da quel momento cominciarono a partecipare attori, cantanti e celebrità di ogni genere, oltre che un popolo di piloti dilettanti (quasi l’80% del totale dei corridori) per i quali la vittoria non consiste nell’arrivare primi, ma nel concludere la corsa.