Racconti di sport

Racconti di sport. “Dino, Dino Viola alé”. Intervista esclusiva con Ettore Viola

calcio dino violaIl ricordo del grande presidente della Roma degli anni ’80 nelle parole belle e toccanti del figlio Ettore a 25 anni dalla sua scomparsa.

Roma, 18 gennaio – Domani è un giorno tristissimo per la storia della Roma, poiché in questa data, nel 1991, esattamente 25 anni fa, se ne andava il grande presidente Dino Viola. Colui che riportò la Roma tra le grandi del calcio italiano  e che, in appena 11 anni, vinse 1 scudetto e 5 Coppe Italia, conquistò tre secondi posti, una finale di Coppa dei Campioni, una finale di Coppa Uefa e, a livello giovanile, tre Tornei di Viareggio. La Roma non aveva mai vinto così tanto in così poco tempo. Anzi, in così poco tempo ha vinto di più di quanto è riuscita a fare in tutto il resto della sua storia.

Il ricordo di Dino Viola lo affidiamo alle parole belle e toccanti di uno dei suoi tre figli, Ettore, che ci ha gentilmente rilasciato questa intervista.

“Con mio padre ho sempre avuto un rapporto tipico di quelli padre-figlio. A volte conflittuale, certo, ma mai rancoroso. Anzi, dopo aver bisticciato come si fa sempre tra padre e figlio io non scomparivo, ma mi rendevo comunque disponibile al dialogo e lui mi ripagava coinvolgendomi sempre” ricorda Ettore, che dei tre figli di Dino e Flora Viola è il mediano. Gli altri sono Riccardo, il più grande e Federica, la più piccola.

Come nacque la passione di suo padre per la Roma?

“Lui era nato ad Aulla, un paesino della Lunigiana e arrivò a Roma al seguito del fratello Ettore, medaglia d’oro e persona di grande rilevanza, dopo la morte della mamma, quando era ancora un ragazzo. Anche per questo nella grande città si trovò un po’ sbandato. Poi un giorno fu attirato dai tifosi della Roma che andavano a Campo Testaccio e per quella squadra e la sua gente provò prima curiosità, poi passione e infine tifo e coinvolgimento totale. Crescendo diventò un importante imprenditore e anche vice presidente della società giallorossa con Evangelisti, Marchini e Anzalone, cosa che gli permise di capire bene cosa era il calcio. E quando Anzalone gli chiese se voleva acquistare la Roma, riunì noi familiari per sapere cosa ne pensassimo e fu un gesto carino verso di noi, che vedendolo da sempre coinvolto nella società giallorossa anche economicamente, accettammo la sua scelta perché, per lui, ci sembrava la giusta conclusione di una vita fatta di duro lavoro imprenditoriale, di sacrifici e di successo”.

Come viveste il fatto di diventare una famiglia pubblica?

“Non ci pesò. Anche perché è nel nostro dna sparire nei momenti di successo, in quelli delle vittorie, proprio come faceva nostro padre, che pure era sempre molto disponibile con i giornalisti e i tifosi. Ricordo, ad esempio, che quando vincemmo lo scudetto a Genova io e mio fratello Riccardo tornammo con l’aereo a Ciampino insieme alla squadra accolti da un mare di gente festante, mentre nostro padre se ne andò a godersi la vittoria ad Aulla con mia madre, visto che Genova era molto vicina al suo paese di origine. Loro erano una coppia molto affiatata, con lei che lo ha sempre consigliato e che è sempre stata molto presente nella sua vita, anche con suggerimenti e sacrifici sopportati sia da madre che da moglie del presidente della Roma. Ed è bello e romantico ripensare a quando il venerdì partivano insieme in macchina per seguire la squadra in trasferta. A mio padre piaceva guidare e non amava essere portato, tanto che non ha mai avuto l’autista e quelli erano due giorni che si prendevano tutti per loro”.

Ci sono momenti particolari che ricorda di quel periodo?

“No, perché ho grande nostalgia di tutti quegli anni, per me stupendi perché, da tifoso e figlio, riuscivo, pur con grandi sacrifici personali e familiari, a stare sempre al seguito della Roma e, per questo, anche di più insieme ai miei genitori. Le due cose, abbinate, mi davano grande gioia. Il massimo di quanto potessi ottenere. Sono stati undici anni volati via in fretta e vissuti alla grande. Mio padre era davvero innamorato della sua Roma e il suo scopo era di non cederla mai. Dopo che è morto, in appena un mese, noi ci siamo trovati senza un punto di riferimento fondamentale e ci sentivamo indeboliti, accerchiati e indifesi. Ci rendemmo subito conto che c’era un progetto per toglierci la Roma e darla a Ciarrapico. Cosa che con mio padre presidente non sarebbe mai successo. Lui che a questa squadra ha dedicato tanto tempo e sacrifici enormi e tutti noi con lui, senza percepire alcun compenso dalla Roma. Ci tengo molto a precisarlo. Tutti noi della famiglia ci sacrificavamo al massimo per fare il bene di questa squadra e della città di cui porta il nome, che in quegli anni, grazie ad essa, fu rivalutata e stimata. Quella Roma, infatti, cancellò anche la brutta immagine che Roma aveva nel resto d’Italia, che quando parlava di lei tirava sempre fuori le storie sul Ponentino e sulla pennichella. Mio padre, con la sua Roma, dimostrò che anche qui è possibile allestire progetti importanti e vincenti con il lavoro duro, l’ingegno e la capacità di fare”.

A tal proposito ricordo che fu lui a parlare per primo della necessità di dare alla Roma il suo stadio.

“E’ vero. Fu il primo a parlare di sponsor e dell’idea di fare lo stadio della Roma, per il quale presentò tre o quattro progetti importanti al Comune, per farlo costruire su un’area da quest’ultimo individuata e da un costruttore da trovare di comune accordo. E credo che se fosse rimasto a lungo il Sindaco Petroselli mio padre avrebbe sicuramente realizzato quella casa che la Roma sta inseguendo ancora oggi”.

Martedì 19 gennaio, alle ore 19.00, presso la Chiesa di San Roberto Bellarmino di Piazza Ungheria, ci sarà una messa per ricordare Dino Viola.

A celebrarla sarà Don Fortunato Frezza, il sacerdote che officiava le cerimonie religiose a Trigoria.

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