Roma, 28 febbraio 2021.
E’ proprio vero che la vita è un soffio e che ci si ritrova a ricordare episodi e avvenimenti di tanti anni fa che sembrano accaduti ieri.
Il 28 febbraio 1971, come oggi, è una domenica speciale per il sottoscritto che per la prima volta seguirà la propria squadra di calcio del cuore, la Lazio, in trasferta.
Un martellamento ai fianchi dei miei genitori, che durava da almeno due anni, finalmente ha il suo risultato; si parte per Verona.
Non ho ancora 15 anni ed a quei tempi non è che potevi andare da solo in giro per l’Italia per cui l’occasione mi arriva in accompagno ad un amico di famiglia.
Verona non è dietro l’angolo ed il viaggio lo facciamo in pullman con partenza da Piazza Vescovio, zona Trieste-Salario, alle 6,30 della domenica mattina.
L’emozione e l’agitazione s’impadronirono di me già da qualche giorno e la sera prima, sabato 27, il diktat familiare impose di andare a letto presto.
C’era però la serata finale del Festival di Sanremo che all’epoca, con due soli canali a disposizione, catalizzava il massimo possibile dell’attenzione televisiva.
Un appuntamento atteso e imperdibile anche per un ragazzo come me che aveva in gara il proprio idolo canoro: Adriano Celentano.
Il Molleggiato aveva trionfato l’anno prima con “Chi non lavora non fa l’amore” e nel 1971 si presentò col brano “Sotto le lenzuola”, in coppia con il Coro Alpino Milanese.
Appena il pullman partì irradiarono le canzoni del Festival, senza però che nessuno sapesse chi avesse vinto.
Solo verso le 8,30, mentre eravamo già in viaggio, il giornale radio comunicò la notizia della vittoria del brano “Il cuore è uno zingaro” della coppia Nicola Di Bari-Nada.
Grossa delusione, per il sottoscritto, per il 5°posto di Celentano e speranze riposte verso la gara del pomeriggio importante per le sorti della Lazio che lottava per non retrocedere.
L’avvicinamento verso Verona fu scandito da cori, battute, lazzi, scherzi, che dentro il pullman i tifosi più caldi lanciarono, con particolare riguardo verso i cuginetti romanisti.
Un’atmosfera per me nuova in una giornata fredda ma soleggiata con lo spettacolo che i vari pullman offrirono completamente imbandierati, foderati, di biancoceleste.
Una macchia di colore al seguito che inondò l’appennino, fino all’ingresso in una silenziosa Verona che sembrò subire il nostro arrivo verso le 13,30.
La festosa marea biancoceleste, con qualche eccesso tipicamente romano, conquistò di fatto lo stadio Bentegodi e con trepidazione aspettai l’inizio della partita.
Il Battesimo del Fuoco portò un’amara sconfitta per 1-0, nonostante i ripetuti tentativi laziali di riacciuffare il pareggio.
Subito dopo il fischio finale dell’arbitro mestamente rientrai, insieme agli altri, in pullman per affrontare il calvario del viaggio di ritorno.
La cosa strana e per me inaspettata fu proprio il ritorno, perché appena superato lo sconforto per la sconfitta il viaggio si rivelò un continuo divertimento.
Ci furono battute continue, prese in giro, con la punta massima che avvenne durante la sosta per la cena al famoso “Cantagallo” nei pressi dello svincolo per Bologna.
Una grassoccia cameriera, addetta ai nostri tavoli, fu letteralmente investita da battutacce nel più becero slang romanesco.
Una cosa certamente da non andare fieri, però divertente e fuori del normale per me che ero alle prime armi in queste cose e in questi approcci.
Il primo viaggio della speranza si concluse col ritorno a casa verso l’una e trenta di notte, con mio padre che, dopo aver saputo tutti i particolari, inevitabilmente concluse:<<eh ma te l’avevo detto io, che ci sei andato a fare>>.
L’indomani mattina ci fu anche un siparietto con il Preside del Cristo Re, la scuola dove frequentavo il corso di Ragioneria, per il fatto che chiesi di entrare con un’ora di ritardo.
Mons. De Zotti, l’emerito Preside, volle sapere il motivo dell’entrata in seconda ora e mio padre riferì candidamente che la causa fu la trasferta del giorno prima.
Il Preside del Cristo Re era un gran personaggio che conosceva a memoria tutti gli alunni dell’Istituto!
Un finto burbero che, quasi con compassione, mi diede il permesso per poter entrare in classe e da allora fui da lui soprannominato “Santicchia il sindacalista”…
La lezione che imparai quel giorno fu che la trasferta per seguire la squadra del cuore NON DOVEVA essere solo legata alla gara.
Tanti da allora sono stati “i viaggi della speranza”, sia in Italia che all’estero, gran parte dei quali con la mia fidanzata, oggi mia moglie, in una sorta di misto cultural-sportivo.
Certo però se perdeva la Lazio…
Per la cronaca il Festival del 1971 mandò in orbita i Ricchi e Poveri e Lucio Dalla, rispettivamente secondi con il brano “Che sarà” e terzo con il famoso “4 marzo 1943”.
La mia Lazio invece retrocesse in serie B, ma al di là dello sconforto patito stavo per assistere ad uno dei miracoli calcistici più incredibili della storia del calcio di lì a tre anni.
Questa però è un’altra storia…