Roma, 5 agosto 2022 – Che squadra che era quel Brasile che abbiamo sconfitto nel 1982 a Barcellona per poi lanciarci a vincere quel Mondiale.
Quante stelle che schierava tutte insieme, soprattutto a centrocampo.
E tutte dalla grande personalità, tanto che il loro capitano era quello che di personalità ne aveva un po’ di più degli altri: il dottor Socrates.
Figlio di un profugo cristiano palestinese autodidatta che si era trasferito in Amazzonia e che aveva la passione per i classici greci (da qui il nome che dette al figlio, Socrates, come quello del celebre filosofo).
Alto e altero, magro e ieratico, laureato in medicina (per questo lo chiamavano “il dottore”) e fortemente politicizzato.
Nel calcio brasiliano degli anni ’70 sembrava un alieno sceso dal cielo al campo per miracol mostrare. Non solo sul campo, sia chiaro.
Oltre che “il dottore” lo chiamavano anche “il magrao” per via del fisico segaligno o “il tacco di Dio”, perché la giocata di tacco era diventata uno dei suoi marchi di fabbrica.
Nel Brasile della dittatura militare aveva creato la “democrazia corinthiana” all’interno della squadra in cui giocava, il Corinthians, per dimostrare al resto del paese che il governo del popolo era possibile.
Perché se loro giocatori potevano prendere le decisioni legate al campo e alla vita della squadra mettendole ai voti all’interno dello spogliatoio anche la gente comune avrebbe potuto e dovuto farlo nella vita di tutti i giorni.
Senza sottostare china e sottomessa al governicchio che il dittatore di turno imponeva con la forza delle armi.
Un messaggio che lui e i compagni cercavano di diffondere anche con tante scritte che esibivano sulle magliette quando entravano in campo.
Il calcio come esempio di vita, oltre che come specchio della società che rappresenta.
Che grande che era “il dottore”, sia in campo che fuori.
Tanto che quando chiuse la sua carriera (che lo vide anche giocare a Firenze, ma senza grandi risultati) mise a frutto la laurea in medicina che si era preso per dedicarsi alla cura dei più deboli e dei più poveri del suo amato Brasile.
Che avrebbe portato a vincere quel Mondiale dell’82 se sulla sua strada non avesse incontrato quell’Italia alla quale abbiamo dedicato il libro “Italia ’82 – Quarant’anni fa”.
Da noi scritto e pubblicato da questa testata, tuttora in vendita su amazon, youcanprint.it e tutti gli altri normali canali online.
Ben diverso da Socrates era l’altra grande stella di quel Brasile, Zico.
Detto “il galinho” per via del suo fisico gracile, minuto e che ebbe bisogno di essere rinforzato in palestra per consentirgli di giocare a calcio.
Se Socrates era il Cortinthians di San Paolo, Zico era il Flamengo di Rio de Janeiro.
In quante sfide tra queste squadre delle due principali città del Brasile si sono affrontati nei tanti campionati nazionali che hanno giocato.
La foto che vedete fu scattata prima di una di queste.
L’abbiamo trovata sul web e purtroppo non ricordiamo chi l’ha pubblicata, altrimenti lo avremmo citato volentieri. Ci scusiamo con lui per non riuscire a farlo.
Zico rispetto a Socrates era, diciamo così, più istituzionale. A lui interessava giocare a calcio e basta.
Lui era il campione di tutti. Il numero 10 che molti indicavano come il vero erede di Pelé.
Era il calcio che si faceva poesia, le punizioni che erano come i rigori, il sorriso dei bambini che incontrava la felicità quando lo vedevano giocare con loro squadra del cuore.
Zico non era altero, ma popolare. Zico era timido per natura, ma in campo diventava estroverso come pochi.
Zico, per molti, era il calcio. Nel quale aveva fatto da ponte tra l’epoca di Pelé e quella di Maradona.
Che si stava imponendo all’attenzione generale in Argentina mentre lui si affermava come campione in Brasile.
Così diversi, ma così geniali. Socrates e Zico, le due facce belle di quel brutto Brasile degli anni ’70 e ’80, che nel calcio trovava quella felicità che la dittatura gli toglieva nella vita di tutti i giorni.