Roma, 20 ottobre 2022.
Il 20 ottobre 1982, quarant’anni fa, è un tranquillo mercoledì con parecchie gare di calcio internazionale relative alle squadre di club.
Non esiste la spalmatura su tre giornate come accade oggi, in virtù dei denari elargiti dalle televisioni, bensì tutte le partite si giocano rigorosamente al mercoledì.
Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa Uefa sono i tornei in questione, che poi negli anni cambiano egida ed impostazione.
Tornando al nostro mercoledì 20 ottobre 1982, per la Coppa Uefa, si giocano i sedicesimi di finale di andata e tra i tanti incontri i sovietici dello Spartak Mosca affrontano gli olandesi dell’Haarlem.
Il teatro di gara è il monumentale stadio Lenin, un catino da 80.000 posti, che due anni prima ospita i giochi della XXII Olimpiade.
La Coppa Uefa ha un turno in più rispetto agli altri due tornei, per via del doppio delle squadre partecipanti, con i sovietici che si propongono all’attenzione dei media europei.
La partita non è di primissima fascia, tuttavia lo Spartak richiede un’occhiata particolare per aver battuto sonoramente l’Arsenal, nel precedente turno, addirittura vincendo per 5-2 in Inghilterra.
Mosca è completamente ghiacciata, dal fiume Moscova, alle strade, allo stadio stesso inagibile per quasi tutti i settori tranne la Tribuna “S” che di fatto ospita circa diecimila infreddoliti spettatori.
Lo Spartak è la squadra del popolo e tra le sue fila c’è la stella Dasaev, che gioca in porta, mentre tra gli olandesi c’è un giovanotto ventenne di cui sentiremo parlare: Ruud Gullit.
Giocare in queste condizioni è ai limiti del proibitivo, la temperatura si aggira intorno ai dieci gradi sotto zero, con i padroni di casa che, maggiormente abituati, vanno in vantaggio nel primo tempo e gestiscono senza grossi patemi l’incontro.
Nel secondo tempo la gara si trascina e tra i giocatori di ambo le parti c’è più la volontà di chiudere prima possibile la contesa piuttosto che animarla ognuno per le proprie esigenze.
Parecchi tra i sostenitori dello Spartak cominciano ad averne troppo dell’infame serata e piano, piano, guadagnano l’unica buia e angusta uscita sognando un bel bagno caldo all’arrivo a casa.
Va bene la passione, l’amore per la squadra del popolo, ma il freddo è micidiale.
Il colpo di scena a due minuti dalla conclusione quando il difensore Shvetsov insacca di testa la rete del 2-0, provocando ovvie e calorose esultanze da parte dei tifosi rimasti sugli spalti.
L’inaspettato boato richiama verso la Tribuna “S” coloro che stanno uscendo, una massa di persone che si mescola con quelli nel frattempo in uscita sulle scale ghiacciate.
Chi scende, chi risale, una mandria impazzita, come nei western di John Ford, ostacolata dalla polizia che, ottusamente, vieta ai rientranti di tornare in tribuna.
La folla va nel panico, le scale cedono, è un massacro.
Addirittura qualche giocatore ospite, nel percepire qualcosa di anomalo, nella confusione creatasi, pensa anche che possa trattarsi di un atto terroristico.
Si tratta di una vera e propria mattanza e le autorità di regime nascondono l’accaduto, impedendo alle poche e silenziate fonti di raccontare la verità.
Un giornale che esce nell’edizione serale parla di ”incidenti allo stadio con qualche ferito”.
Una realtà disattesa che poi porta a certificare 66 morti e 61 feriti, ma stime non ufficiali parlano di oltre duecento morti.
Il regime impone ai parenti delle vittime il silenzio assoluto, i cadaveri vengono rimossi in segreto dallo stadio Lenin, opportunamente blindato, con i vestiti dei poveri deceduti bruciati in un rogo.
Il custode dell’impianto, un certo Panchickhin, viene additato come responsabile della situazione con condanna di diciotto mesi ai lavori forzati.
Solo nell’epoca della trasparenza di Gorbaciov trapelano le prime verità sulla tragedia dello stadio Lenin, oggi Luzhniki, ma senza che nessuna autorità chieda mai scusa ai parenti delle vittime.
L’unica testimonianza è un monumento commemorativo eretto nel 1990, a conferma di come il regime sovietico abbia negato i fatti accaduti.
Una tragedia coperta, se vogliamo, dall’influsso mediatico di altre mattanze come l’Heysel del 1985, con i suoi 39 morti, come quella di Sheffield del 1989, novantasei vittime, come Bradford sempre nel 1985, con 56 deceduti.