Roma, 25 maggio – Fuori dai giochi e dai tanti cori che si sono succeduti tra l’ultima di campionato ed i successivi due giorni, con annessa cena d’addio, tracciamo un bilancio di quello che sono stati, l’uno per l’altra, Miroslav Klose e la Lazio.
La nostra non vuole essere una celebrazione statistica relativa ai goal del tedesco nei cinque anni di Lazio, ma una caratterizzazione diversa del personaggio Klose e della sua sobrietà di stile, quasi fuori luogo nel calcio spettacolarizzato del XXI secolo.
L’arrivo nell’estate del 2011 fu accolto scetticamente e con scarso entusiasmo, perché le attenzioni dei tifosi e della stampa erano maggiormente rivolte verso il “coreografico” Cissè, rivelatosi poi in pochi mesi inadeguato su tutta la linea.
Miro, che sembrava fosse quasi un ex giocatore, venuto a Roma per un “prepensionamento”, si è calato nella realtà romana con molta umiltà, senza divismi ed atteggiamenti contraddittori (di bulletti di quartiere ne abbiamo visti diversi in maglia biancoceleste, e non tutti accompagnavano il genio alla sregolatezza) ed è entrato subito in sintonia con l’ambiente e coi tifosi grazie anche all’incredibile prodezza effettuata nell’ottobre 2011 che consentì alla Lazio di vincere in rimonta per 2-1 il derby con la Roma dopo più di due anni dall’ultimo successo.
Il percorso di Klose è stato quasi simile a quello di Roberto Mancini, certamente non per i successi conseguiti, vista l’abissale differenza tra le formazioni laziali delle due epoche diverse. Con l’arrivo a Roma a trentatre anni, Miroslav ha mostrato lungimiranza, scegliendo una piazza non di primo piano in cui ha saputo però ritagliarsi uno spazio di visibilità; scelta che gli dato l’opportunità di disputare il suo quarto mondiale con la maglia della Germania, quello vittorioso in Brasile del 2014, e di stabilire il record di 16 gol complessivi destinato a resistere per lungo tempo.
Quindi fu una scelta “di testa” quella di Klose, atleta dalla professionalità spiccata sempre al servizio del collettivo, che nel tempo ha però rivelato al popolo laziale, pur restando fedele al suo stile, anche il suo cuore.
Per onestà intellettuale dobbiamo dire che nei cinque anni di militanza biancoceleste qualche “licenza” Miro se l’è presa, ma a conti fatti non ha nuociuto più di tanto alla Lazio, visto il basso profilo a cui è stata relegata dal suo presidente.
Auf wiedersehen, herr Miro!