Se ne è andato Sven Goran Eriksson.

A pochi giorni dal suo ultimo messaggio scompare l'allenatore-gentiluomo.

Roma, 26 agosto 2024.

 

E’ durata meno di un anno l’aspettativa di vita di Sven Goran Eriksson, scomparso oggi all’età di 76 anni, da quando, nello scorso gennaio, rese nota la sua grave malattia.

Ancora più struggente, oltre che profetico, l’annuncio che meno di una settimana fa Eriksson ha dato ai mezzi d’informazione dove invitava tutti a ricordarlo come una persona per bene.

Al di là delle varie incensazioni relative alla sua prestigiosa carriera sportiva dove poco prima del maggior successo conseguito, lo scudetto della Lazio nel 2000, veniva definito un perdente di successo.

Si perché nel variegato mondo italico pallonaro quello che merita rispetto è solo colui che vince, magari in qualche occasione turandosi il naso su come ha vinto.

Eriksson nel suo percorso ha dimostrato competenze tecniche, educazione, signorilità e versatilità non comune vista la sua adattabilità ai vari ambienti in cui ha lavorato.

Dopo i primi successi in Svezia e nel Benfica arriva nell’opulenta Roma del post-scudetto e Coppa Campioni perduta, proprio in virtù di una ricostruzione pensata dall’allora presidente Viola per il dopo Liedholm.

Tre anni in giallorosso con concetti integrali di calcio totale, zona-pressing, con uno scudetto sfumato sul filo di lana nel 1986 contro la Juventus di Trapattoni e Platini.

Ritorna in Portogallo per poi rientrare in Italia nella Fiorentina di Baggio e Dunga e poi nella Sampdoria del dopo Boskov, dove instaura un sodalizio oltrechè tecnico anche umano con Roberto Mancini.

Nel 1997 arriva alla Lazio del presidente Cragnotti, insieme al trentatreenne Mancini, e in tre anni costruisce una squadra da sogno vincendo quello che mai era stato neanche pensabile per i tifosi biancocelesti.

Il resto, dalla nazionale inglese ad altre avventure più o meno esotiche, è cronaca che possiamo scoprire su internet.

Quello che mi preme sottolineare è come l’intelligenza del personaggio sia sempre stata superiore a sterili convincimenti tecnici, che spesso, in alcuni personaggi, sono sfociati nell’integralismo.

Uno che all’arrivo nella Roma rifiuta la figura del preparatore atletico perché lui stesso abilitato a tale compito per gli studi fatti e che qualche anno dopo lo trovi completamente cambiato.

I primi approcci di pseudo integralismo lo vedono in antitesi con qualche big dello spogliatoio e poi lo ritrovi sodale con una primadonna come Roberto Mancini.

Il triennio laziale lo sdogana definitivamente dall’etichetta di perdente di successo e dimostra altresì la sua capacità di saper gestire personalità forti e complesse.

Qualche analista superficiale lo definisce persino difensivista, vista la differenza tecnica con il primo Eriksson conosciuto, ma giocare nella Lazio del 1999 con due punte, Salas e Vieri, più un’ala offensiva come Conceicao, più un incursore come Nedved e la grande invenzione di Mancini costruttore di gioco, insieme ad Almeyda, è la riprova di sagacia tecnico-tattica e credibilità nell’imporlo agli interpreti.

In questi ultimi giorni gira sui social un simpatico racconto da parte di Bobo Vieri che, divertito, rivela alcuni aneddoti dello squadrone biancoceleste del 1999.

Tra questi un episodio che, durante un intervallo di una gara che stava palesando qualche problema, vede Eriksson entrare nello spogliatoio piuttosto contrariato e al massimo della sua incavolatura se ne esce:<Cavoli ragazzi…>.

Una bella storia che, relativamente al più stretto ricordo dei tifosi della Lazio, lo lega a personaggi come Fulvio Bernardini, Tommaso Maestrelli, Bob Lovati, Eugenio Fascetti e Dino Zoff, gli ultimi due ancora tra noi.

Ribadisco NON per i palmares conseguiti ma per il tratto umano, per la lezione di sportività e civiltà che ci ha lasciato.      

 

 

FOTO: Eriksson – Gazzetta dello Sport.

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