A poche ore dal calcio d’inizio di un match che può spalancare la strada ad uno Storico Triplete da parte della formazione bianconera, tanti sportivi italiani sono ancora sotto shock per la cruda essenza del calcio italiano offerta dal derby tutto cinese fra Inter-Nanchino e Milan-Hong Kong.
Ovvero il calcio italiano, anche nelle sue società più storicamente insigni e popolari del mondo, è stato assimilato da investitori stranieri a partire da Inter, Milan, Roma e tante altre squadre professionitiche.
Questi potentati stranieri, principalmente cinesi ed americani, non sono in Italia per fare alcuna beneficenza ma per mungere denaro.
Quello che lega al calcio l’italiano medio è stato sempre lo spirito di appartenenza con i colori di una squadra di calcio, una sorta di identificazione fra se stessi, una tradizione familiare ed una determinata squadra di calcio. Per un secolo e passa, questa malattia, un tifo irrazionale, ha legato a sé la vita ed il passatempo di generazioni di italiani. Spesso un credo che facesse superare crisi economiche ed identitarie.
Ora sono arrivati cinesi ed americani che hanno modificato tutto. Gente che ha ben compreso che un movimento che muove l’interesse di milioni di persone, qualora ben gestito, è business puro.
Le leggi finanziarie garantiscono, infatti, questa equazione: datemi un bacino di utenza ampio con investimenti adeguati nell’ambito della manipolazione di massa, ed è matematicamente certo che nel breve, medio e lungo periodo, ne deriveranno rendimenti sempre più alti.
Non più società di calcio al limite della bancarotta, ma club di football sempre più ricchi e lucrativi.
Fine, perciò, dei presidenti che vanno in rovina per sostenere la purezza del club e delle tradizioni di campanile.
Porte spalancate all’immissione di giocatori tutti stranieri. Addio allo sviluppo di calciatori nostrani che costano troppo. Via libera al calcio-spezzatino in TV a tutte le ore ed in tutti i giorni.
Gli introiti del calcio arrivavano dal botteghino, dalla compravendita dei giocatori (lucrativa soprattutto per gli agenti), dalla spartizione dei diritti Tv e da rari sponsor.
Il calcio- business non guarda più a queste entrate ma soprattutto al marketing legato al buon nome e rendimento della squadra ed ad altre forme di introiti poco pubblicizzate ma di grandi rendimenti quali: iI settore commerciale ed immobiliare promosso dallo stadio di proprietà; il marketing del Logo ed ultimo, ma non ultimo, la scuola di calcio.
Nel ventesimo secolo, il calcio si è affermato perché sport che poteva essere praticato dappertutto dovendo disporre soltanto di un affare rotondo che poteva essere anche un cartoccio, ed uno spazio libero. Niente di più semplice.
Tutti gli italiani (e non) hanno giocato questo calcio. I più scarsi finivano per giocare in porta. Bastava uno spiazzo libero, un prato di periferia, una piazzetta, una strada larga con poco traffico, per improvvisare partite di calcio che duravano ore. Il passatempo per chi marinava le lezioni con i libri a fungere da pali della porta. Se poi il ragazzo sentiva di saperci fare, c’era il passaggio all’oratorio del paesino o del rione. Quindi la scoperta del talent scout della piccola società di calcio della zona.
Un giochino che interessava milioni e milioni di giovani, portando alla scrematura dei campioni e del calcio professionistico.
Quel calcio povero non esiste più da tempo. Ora il football si impara e si pratica nelle scuole calcio dove vengono indirizzati milioni di ragazzini spinti da genitori che sperano di aver trovato una via verso il successo economico, ovvero anche un mestiere per sbarcare il lunario.
Dietro questa domanda di scuole calcio si cela il grande business sconosciuto del calcio del nuovo millennio. I grandi club italiani di calcio dispongono (e gestiscono direttamente od indirettamente) di decine e decine di scuole calcio sparse del territorio.
Una volta, dopo l’oratorio, i più talentuosi venivano indirizzati al “provino”, come gli attori, per la squadra più eminente del territorio. Se promossi, accedevano alla scuola calcio del club, nella quale maturavano agonisticamente, ma gratuitamente.
Attualmente alle scuole calcio accedono soltanto i ragazzini per i quali i genitori sono disposti (felicemente) a sborsare una solida quota annuale o mensile nel tentativo (assai raro) di fare crescere un campione. Migliaia, milioni di giovani che, sborsando quote con qualche zero, messi insieme, producono introiti milionari.
Il calcio americano (statunitense) e quello cinese, vivono e prolificano attraverso questo sistema, più sicuro e più programmabile.
In Italia la Juventus è all’avanguardia in questo senso. Esporta, a pagamento, la sua scuola calcio anche all’estero.
Inquadrato meglio l’attuale fenomeno calcio in Italia, il pericolo è che questa colonizzazione procuri conseguenze devastanti per questo sport e , comunque, per l’equilibrio psico-sociale di tanti italiani che avevano affidato al calcio la propria felicità, l’organizzazione della propria vita quotidiana.
Di per sé questo non sarebbe certamente un guaio, se servisse a trovare valori culturali più elevati. Ma questo è un altro discorso.
In questo periodo di transizione, c’è solo da augurarsi che i nuovi colonizzatori abbiano almeno la sensibilità di mantenere una parvenza di continuità con la tradizione calcistica italiana. Salvaguardando la presenza e lo sviluppo dei calciatori italiani. Come non fanno Inter, Roma, Napoli ed anche Udinese. E speriamo non lo faccia anche il Milan post Berlusconi.
Va bene la presenza della Tv e l’abilità della regia a non mostrare i vuoti sugli spalti, ma è pur certo che il pubblico è un elemento fondamentale dello show. E, se si scolla il tifoso dal giocatore, allo stadio a pagamento (anche salato) chi continua andarci?
Globalizzare è differente da colonizzare.
I cinesi-americani ben vengano per globalizzare. Mettano pure in campo gli strumenti di crescita economica più avanzati, ma rinunzino alla speculazione selvaggia nel loro interesse. Non allontanino il giocattolo preferito dagli italiani.
I club europei più importanti insegnano quale sia la strada per globalizzare e crescere.
Ieri si sono qualificate alla semifinale di Champions, due club madrileni. Nel Real che ha eliminato il Bayern di Monaco dell’italiano Carlo Ancelotti erano inserirti 6 giocatori spagnoli. Nell’Atletico (che ha eliminato il Leicester ex Ranier), gli spagnoli erano 4 accanto ai sudamericani di lingua spagnola: ma anche nel Bayern i tedeschi erano 6.
Questi club vivono economicamente molto bene. Nell’Atletico la presenza nel consiglio di amministrazione del cinese più ricco al mondo, Wang Janlin (con il 20 per cento delle quote) è garanzia di gestione perché ha interessi in ogni dove ed in particolare è proprietario di quella società europea (Infront) che gestisce in Italia i diritti Tv del calcio, nonchè l’immagine e la comunicazione di Milan, Roma, Lazio Genoa, Samp, Udinese e Palermo.
Anche la Juventus si muove ad altissimi livelli nel campo della globalizzazione, una strada che ha imboccato con grande anticipo.
Il suo modello si ispira alla salvaguardia del patrimonio calcistico italiano integrandolo con quanto di meglio si possa reperire sul mercato internazionale. Non il viceversa.
Perciò tutti gli appassionati di calcio traditi dalla colonizzazione hanno ancora una buona risorsa per continuare a dare un senso sportivo alla propria esistenza ed alle proprie abitudini. Quale? Diventare tutti juventini a partire da questa sera. Ciò va detto e sostenuto prima (e non dopo), il calcio di inizio a Barcellona.
A proposito, se il Barcellona dovesse riuscire nell’impresa di rimontare i 3 gol al passivo, alle semifinali della Champions arriverebbero tre club spagnoli su quattro squadre, alla faccia della non colonizzazione!!