Roma, 4 maggio -Nell’immediato dopoguerra il Torino diventò il simbolo dell’Italia intera, fondendola sua storia con quella della Nazione, che nelle sue vittorie (e in quelle di Bartali e Coppi nel ciclismo) trovò la forza di rialzare la testa e ritrovare l’orgoglio dopo i lutti e le umiliazioni che aveva vissuto.
Stiamo parlando, ovviamente, del Grande Torino, quello dei cinque scudetti consecutivi vinti dal campionato 1942-43 a quello 1948-49, con l’intermezzo della guerra che gli impedì di conquistarne altri. Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Castigliano, Rigamonti, Grezar, Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris gli undici, indimenticabili, titolari di quella squadra.
L’unica, ancora oggi, ad essere chiamata sempre con l’appellativo “Grande”.
Il presidente Ferruccio Novo l’aveva costruita con competenza e passione, pezzo dopo pezzo. Loik e Mazzola erano arrivati dal Venezia; Ballarin e Grezar, il mediano, dalla Triestina; Bacigalupo, il portiere, dal Genoa. Proprio quest’ultimo era un gran personaggio. Insieme ai compagni Rigamonti e Martelli abitava in Via Nizza e, come loro, piaceva molto alle ragazze. Sempre ben pettinato, con i capelli pieni di brillantina, secondo la migliore usanza del tempo, era un po’ l’anima goliardica ed allegra del gruppo. In quelle maglie granata, che vincevano ovunque andavano, ogni italiano ritrovò l’orgoglio nazionale perduto, la voglia di ricominciare a vivere e a sognare, l’appagamento al suo desiderio di riscatto agli occhi del mondo.
Il Grande Torino ebbe il merito di far sognare la gente, aiutarla a dimenticare le angosce quotidiane regalandogli momenti di vita esaltante e spensierata. A quegli uomini, che perirono tragicamente nel disastro aereo di Superga, alle 17.05 del triste, nebbioso e grigio 4 maggio del 1949, tutti dobbiamo molto. E bene fece il calcio italiano ad assegnare loro lo scudetto 1948-49 nonostante al momento della tragedia alla fine del campionato mancassero ancora quattro partite, che i granata (per necessità) e tutti i loro avversari (per solidarietà) giocarono con le formazioni giovanili. Dopo la scomparsa del Grande Torino (insieme ai cui giocatori, tecnici e dirigenti perirono anche i giornalisti Renato Tosatti, Cavallero e Casalbore), il presidente Ferruccio Novo, che non era partito con gli altri per andare ad assistere all’amichevole di Lisbona, cercò di ricostruire il Mito.
Ma la squadra guidata da Valentino Mazzola, che dopo una ventina di minuti dal fischio d’inizio si arrotolava le maniche al suono della carica del trombettiere in tribuna e dava il via alle danze, proprio in quanto Mito, era destinata a rimanere solo un dolce e bellissimo ricordo.