Roma, 29 gennaio 2021- Daniela Gini è figlia d’arte. Il padre Massimo fu pilone del Brescia e della Rugby Roma, nonché 17 volte azzurro tra il 1968 e il 1974).
Una lunga carriera tutta romana per Daniela Gini, nel corso della quale si è meritata 51 caps in azzurro, comprensivi di due Campionati mondiali (1998 e 2002) e molti europei (di cui uno vinto nel 2005).
La lunga crisi societaria della Rugby Roma, che nel 2011 si concluse mestamente con il fallimento, ebbe tra le prime vittime la squadra femminile, sciolta nel 2007.
Per continuare a giocare la Gini, assieme ad altre compagne romane e frascatane, trovò una nuova casa a Colleferro, nella Red& Blu di Corrado Mattoccia, disputando il campionato femminile Élite fino al 2010, quando decise di ritirarsi dall’attività agonistica a 33 anni.
Oggi, conciliando impegni professionali e familiari, si allena e gioca ancora con la Nazionale Classic.
Daniela, parlaci delle difficoltà che tu, da adolescente degli anni ’90, hai incontrato con una scelta sportiva non convenzionale all’epoca.
«Ho iniziato a giocare a 13 anni con la Lazio Rugby del presidente Mario Ricciardi, ai campi dell’Acqua Acetosa; non avevo ancora l’età per essere tesserata, l’Under 14 femminile non esisteva, quindi alle partite ufficiali facevo da mascotte. Nell’estate del 1991 mio padre mi portò in Olanda, per partecipare a un torneo di Seven ad Amsterdam, che mi preparò per l’agonismo. A settembre, compiuti i 14 anni, Renato Speziali mi prese alla Rugby Roma, in cui ho passato gran parte della mia carriera agonistica. Sono orgogliosa di essere stata capitana per 16 anni. Ho fatto molti sacrifici per allenarmi, il Campo delle Tre Fontane era dall’altra parte di Roma rispetto a casa mia, i lunghi spostamenti erano ovviamente con i mezzi pubblici. Ogni tanto andavo a scuola con qualche ferita di battaglia, ma i professori erano più preoccupati che il tanto sport mi distogliesse dallo studio».
Anche in Nazionale sei arrivata precocemente, direttamente dalla porta principale.
«Fu Rino Francescato a convocarmi per la prima volta nel maggio 1992, non avevo ancora quindici anni. Per me e Michela Tondinelli, in quanto minorenni, c’era una tutrice incaricata dalla Federazione, ricordo che si chiamava Bianca. L’Italia era composta per la maggior parte dal blocco di giocatrici del Treviso, qualcuna aveva quasi il doppio della mia età. Fra tutte ricordo Mafalda Palla, capitano, allora intorno alla trentina, e poi Adelina Corbanese (scomparsa di recente, ndr), Carla Negri, Antonella Rossetti, Marta Breda, Lorena Nave, Elena Bisetto, Bruna Collodo, Monica Tonella. Certo, in una cittadina di provincia, per lorola realtà era diversa, basti pensare alla facilità nel raggiungere il campo di allenamento, questione di minuti e non di ore come per me. Eppure, nonostante ciò, parliamo di non professioniste; oserei dire che le giocatrici erano delle volontarie, definirle dilettanti sarebbe improprio e ingiusto. Io ero affascinata dal loro stile di comportamento, impeccabile nella disciplina, nell’applicazione e finanche nel vestire le divise sociali».
E poi si passa all’età adulta, con conciliazione di lavoro (i non professionisti devono campare d’altro), gestione domestica, figli e allenamenti…
«Ho cominciato a lavorare presto, dopo il diploma di Ragioneria, in un’azienda che si occupa di pubblicità e consulenza commerciale, in cui mi occupo tuttora degli aspetti contabili. Per partecipare al mio primo Campionato del Mondo, nel 1998, ho dovuto utilizzare tutte le mie ferie, rinunciando totalmente alle vacanze. Sono grata alla titolare dell’azienda, non a caso una donna, che mi sostenne e mi consentì di assentarmi dall’ufficio per tutto quel tempo. Anche oggi per continuare ad allenarmi devo fare salti mortali e incastrare tutto. D’altronde ho l’esempio di mio padre e della sua generazione, persone che hanno sempre lavorato, non potendo vivere solo di rugby».
L’essere figlia d’arte ti accomuna ad altre colleghe, come la quasi coetanea Elisa Cucchiella o la più giovane Germana Raponi, per citarne alcune del centro Italia. Come hai vissuto questa condizione?
«Il legame con mio padre Massimo è stato intensissimo, di grande sintonia. La passione per il rugby è stato un forte punto di contatto, ma non l’unico. Mi ha sempre seguito in tutta la carriera, assistendo alle partite, inclusi mondiali ed europei, spesso accompagnato anche da mia madre; le loro nozze d’argento nel 1998 le hanno festeggiate con la trasferta in Olanda per la Coppa del Mondo. Resta proverbiale la presenza silenziosa di papà agli allenamenti, a bordo campo in posizioni ed atteggiamenti curiosi, attento agli aspetti tecnici e ai particolari. È stato il mio fotoreporter personale, sono poche le immagini in cui c’è anche lui, che era sempre dietro la macchina fotografica».
Oltre a tuo padre, chi sono stati i tuoi modelli di riferimento in campo rugbistico?
«Io sono cresciuta al campo delle Tre Fontane, una seconda casa per la mia famiglia; lì passavamo le nostre domeniche al seguito di papà. Ho avuto molti allenatori, cito Gianluca Guidi, Andrea Di Giandomenico, Andrea Cococcetta, Massimo Mascioletti, quest’ultimo impressionante per la grande capacità di comunicazione. Ma illuminanti sono stati anche gli incontri con giocatori e allenatori come ZinzanBrooke, John Kirwan, Franco Ascione, Pino Lusi, Georges Coste. Allenatrici donne non ne ho avute, ma sicuramente ho appreso molto dalle compagne trevigiane in Nazionale, come detto. E poi penso di averci messo molto del mio, con l’applicazione ragionieristica che mi viene dalla mia professione e che meticolosamente ho adottato anche nel rugby».
Parliamo di altre attività in cui ti sei cimentata, a partire da quella di commentatrice tecnica televisiva.
«Molte cose nella mia vita sono giunte inaspettate, prima tra queste la chiamata da La7: la redazione sportiva cercava una giocatrice esperta da affiancare come commento tecnico, per il Sei Nazioni 2005, al telecronista Gianluca Barca. Non so chi fu a proporre il mio nome a Paolo Cecinelli. Così sono stata la prima donna a ricoprire quel ruolo. Poi con Gianluca ho avuto ancora il piacere di collaborare proprio su Allrugby, nei primi anni della rivista. E inattesa, poche settimane fa, è arrivata la nomina della sottoscritta e di Andrea Lo Cicero nella Commissione atleti FIR, assieme ai consiglieri federali quota giocatori Carlo Festuccia e Francesca Gallina: un grande onore per me».
E chiudiamo con uno sguardo al futuro: che aspettative può avere la Nazionale che si è guadagnata, da prima nel girone, la qualificazione al prossimo mondiale femminile in Nuova Zelanda?
«E’ difficile fare pronostici, non è ancora ben chiaro quanto completa sia oggi la crescita di altre nazionali prima considerate di secondo livello. In ogni caso la squadra azzurra ha già conquistato un risultato straordinario con la prestigiosa prima posizione nel girone. Auguro con tutto il cuore alla squadra, in cui ci sono anche mie ex compagne come Sara Barattin, di continuare a farsi onore».
Il finale di questa conversazione lo lasciamo a una scena singolare, di cui è teatro il Centro “Renato Speziali” di Via di Tor Pagnotta, da qualche anno casa della Rugby Roma Olimpic Club 1930.
In campo ci sono i bambini della Under 6, e tra loro muove i primi passi rugbistici il piccolo Massimo, assieme ai suoi compagni. A bordo campo, una presenza femminile silenziosa, in posizioni e atteggiamenti curiosi, attenta agli aspetti tecnici e ai particolari. Scatta anche delle fotografie con lo smartphone. C’è bisogno di specificare che la madre di Massimo jr. si chiama Daniela?
Ringraziamenti
L’intervista è stata pubblicata sul numero N° 164 di Allrugby e, come da consolidati rapporti di collaborazione tra le testate, www.attualita.it lo propone in simultanea.
Il redattore “credente non praticante” è riconoscente a Pierfrancesco Grangiè, inesauribile fonte di conoscenze sulla galassia del rugby romano. La fotografia è stata messa gentilmente a disposizione da Daniela.