Le Pioniere.

Nella Marca trevigiana, alle origini del rugby femminile italiano.

Roma, 05/12/2023-

Il numero N° 186 di Allrugby (Dicembre 2023) ospita un’intervista a tre pioniere del rugby femminile italiano (da sinistra a destra nella foto: Marta Breda, Antonella Rossetti, Bruna Collodo). Come da consolidati rapporti di collaborazione tra le testate, www.attualita.it lo propone in simultanea in una versione estesa.

Nel rugby a XV femminile italiano il ruolo apripista lo ha avuto indiscutibilmente, a partire dalla fine degli anni Settanta, un gruppo di pioniere, nella pianura della Marca Trevigiana. Stiamo parlando delle Red Panthers, di cui, grazie alle testimonianze di alcune protagoniste, vogliamo ricordare l’epoca iniziale.

Ma andiamo per ordine. Come in passato, la trazione veneta del movimento rugbistico nazionale continua anche nella terza decade del XXI secolo, a partire dalla Benetton maschile che, oltre ad aver compiuto i noti progressi in campo internazionale, costituisce l’ossatura della Nazionale maggiore. Nel campionato nazionale maschile Serie A Élite lo scudetto dal 2020/21 è diventato una questione tra Rovigo e Padova, e il titolo di campione d’Italia ha fatto la spola, costeggiando i Colli Euganei, tra il Polesine e la città dei dottori. A voler essere ancora più analitici, dall’ultimo scudetto della Rugby Roma nel 2000, è stato quasi sempre una questione regionale, tra Benetton Treviso, bersaglieri, Petrarca e la singola fiammata del Mogliano (2012/13); le uniche incursioni esterne al Veneto sono venute, nel nuovo millennio, dalla vicina Lombardia, con l’unico acuto di Viadana e i sette titoli del Calvisano buonanima.

Questa situazione, ben conosciuta a livello maschile, è ancora più evidente se andiamo a fare una statistica delle rugbiste scudettate. Dal primo Torneo UISP 1984/85 all’ultimo 1990/91, non ce n’è stata storia, il titolo è rimasto imbullonato a Treviso. Il passaggio ai tornei FIR non cambiò la musica, consolidando lo strapotere assoluto delle Red Panthers fino al 2003. Fecero allora la comparsa sul podio le prime antagoniste, le ragazze di Mira del “Rugby Riviera del Brenta”, fondato nel 1995 sulle sponde del fiume come sezione femminile del club locale nato vent’anni prima. Per una decade, le due compagini si sono contese lo scudetto, finché il Monza non è arrivato nel 2013/4 a rompere la monotonia. In realtà, fu solo la cesura da un monopolio veneto ad un altro: nella terra del biancofiore democristiano, il nuovo “quasi monocolore” è diventato il bianco-celeste-rosa del Valsugana Rugby Padova. Nell’ultima decade le ValsuGirls (formatesi nel 2007 in seno al club del rione padovano di Altichiero) si sono prese cinque scudetti, inclusa l’ultima edizione della Serie A Élite. Solo Colorno prima (2017/18) e Villorba poi (2018/19; ma qui siamo sempre in provincia di Treviso, a 10 km, non si è viaggiato molto) hanno spezzato il predominio, prima del buco pandemico tra 2020 e 2021.

Insomma, nel rugby italiano delle ultime decadi, è una questione tutta veneta, sia tra gli uomini che tra le donne. Chiedendo licenza per l’appropriazione indebita del proverbio locale, potremmo sintetizzare il tutto dicendo che “Se no xe pan, xe poenta”.

Ma per capire dove siamo arrivati in questa breve cronistoria, dobbiamo risalire al punto di partenza, Treviso. Qui ci attende un gruppo di fantastiche ragazze a cui il rugby italiano femminile, che a tutt’oggi può vantare di essere arrivato più in là dei maschi nei campionati mondiali, deve molto. A fare da sensale a questo incontro ci ha pensato gentilmente Daniela Gini che, all’inizio della sua lunga carriera agonistica, proprio nelle sorelle maggiori trevigiane trovò un punto di riferimento fondamentale.

Siamo perciò pronti ad ascoltare, in una piacevole “tavola ovale”, i racconti di sport e di vita di Bruna Collodo, Marta “Wally” Breda e Antonella Rossetti (di qui in avanti, rispettivamente BC, MWB e AR).

 

Una scelta controcorrente, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80: ma chi ve l’ha fatto fare (in senso buono)?

BC: “Fu una cosa casuale, intorno al 1978, a diciassette anni. Per me fu naturale, erano giocatori mio fratello Tiziano (terza linea di Conegliano, San Donà e Villorba, prematuramente scomparso nel 2019, n.d.r.) e mio cugino Oscar (mediano d’apertura di Metalcrom, Benetton e Petrarca e della Nazionale nel primo mondiale 1987, n.d.r.). I nostri vicini di casa erano i Peron (il capofamiglia Sandor fu pilone del primo scudetto arrivato nella Marca, quello di Faema del 1956, n.d.r.). Ho cominciato a lavorare molto presto come parrucchiera; io e Mansueta (Palla, n.d.r.) eravamo colleghe e il nostro principale, quando c’erano le trasferte, ci concedeva di assentarci al lavoro in modo alternato. Nel gruppo iniziale c’erano Jolanda “Jole” Baratto, Michela Marchetto (sorella di Manrico), Lucia Tavano, Antonella e Valentina Napolitano, Titta Peron. Ci si allenava, guidate da Roberto Marchetto (solo omonimo degli altri) nel parcheggio del cimitero, accanto al campo Milani della Metalcrom, i cui giocatori ci prendevano in giro. Fu molto difficile venire accettate, ricordo Giorgio Fantin- allora membro del Comitato regionale, che divenne poi il nostro allenatore-, che tentava di farmi tesserare in Federazione, sperando che, con la faccia da maschietto che avevo, non mi si notasse. Poi pian piano il gruppo si rinforzò con nuove arrivate, tra cui Adelina Corbanese. Ricordo che quando si cominciò a sentir dire da qualcuno «Anche io conosco una ragazza che gioca a rugby» capii che il muro era crollato, noi ragazze avevamo conquistato la legittimazione”.

MWB: “A Treviso c’erano società rugbistiche consolidate a livello maschile: Benetton, Metalcrom, Tarvisium, oltre ad altre squadre dei paesi limitrofi. Io sono arrivata da ‘paesana’ tra le cittadine, venendo da Villorba dove vivevo in aperta campagna. Lì già c’era una squadra maschile, alcuni erano fratelli di amiche, uno il moroso di mia sorella. Pur se fui ‘reclutata spintoneamente’ nel 1983, Treviso fu per me una conquista, arrivai e divenni pilone, per scelta. Fui subito accettata in un gruppo di ragazze che si stimava reciprocamente, e continua a farlo dopo tanto tempo, con una amicizia salda e sincera”.

AR: “Diversamente dalle altre compagne, io non avevo nessun rugbista in famiglia. Mia mamma però mi ha sempre stimolato a fare attività fisica. Prima di allora avevo praticato la canoa fluviale, andavo anche in trasferta in treno da sola, cosa abbastanza anomala allora. Devo dire che i miei genitori erano entrambi di mentalità avanzata rispetto ai loro tempi. Il primo placcaggio mi venne naturale, essendo io allenata ad un altro sport molto fisico. Ero forte, ma poco veloce. Del rugby attirava anche la possibilità di viaggiare per motivi agonistici. Nessun insegnante a scuola si meravigliò della nostra scelta, qui a Treviso il rugby è parte della cultura locale”.

 

Come nacquero le Red Panthers?

BC: “Dopo lo scioglimento della Metalcrom, la famiglia Benetton acquisì la proprietà della squadra. Il primo simbolo sulle maglie delle squadre maschili era il ‘folpetto’, marchio storico dell’azienda tessile. Successivamente il polpo fu sostituito dal più aggressivo leone. Noi facemmo una riunione ‘carbonara’, di domenica pomeriggio, nel garage di casa di Iolanda Baratto. Con spirito provocatorio scegliemmo una felina, e così la pantera divenne il nostro simbolo. Siccome furono i ragazzi del Tarvisium, nostri coetanei, quelli che mostrarono più apertura nei nostri confronti, copiammo il loro rosso come nostro colore sociale. Così nacquero le Red Panthers. Sino ad allora utilizzavamo maglie rimediaticce, scampoli dei tornei giovanili dei maschi. La prima divisa ufficiale era rossa con banda verde, a richiamare il colore Benetton. Susanna Ferraro faceva la commessa in un negozio di abbigliamento, e aveva molto senso estetico; fu lei a spingerci ad avere una nostra divisa”.

AR: “Eravamo ospiti della Benetton, ma da figlie di un dio minore. Basti dire che la sera spegnevano i riflettori, le aree di meta restavano al buio. L’avvento al vertice della squadra maschile del presidente Arrigo Manavello- il principale, anzi unico finanziatore della nostra storia- fu la svolta. Grazie a lui, all’inizio degli anni Ottanta, passammo dal campo di Lancenigo (frazione di Villorba, n.d.r.) alla Ghirada, venendo finalmente pienamente accolte nella società. Il Notaio Manavello spendeva di tasca sua per finanziarci, in parte perché credeva in noi e in parte perché forse non aveva cuore di abbandonarci. Su suo impulso nacque il Torneo Città di Treviso, una due giorni che richiese grande impegno organizzativo”.

 

A quali modelli vi siete ispirate?

[N.d.r.: Confesso, la domanda è capziosa, essendo palese che il modello per le rugbiste italiane sono proprio loro. E Antonella mi coglie in castagna e, da capitana, risponde perciò senza indugi]. AR: “Non ne avevamo, e non ne abbiamo avuto bisogno. Ci siamo semplicemente appassionate ad uno sport che impegna assieme fisico e intelligenza, obbligando 15 persone a ragionare in modo congiunto, per diventare un sistema e raggiungere l’obiettivo comune”.

 

Cosa significava, allora, giocare a livello internazionale

BC: “Premetto che per me il club di appartenenza è sempre stata la priorità. La Nazionale è stata una grande soddisfazione, ma la ho sempre vissuta come una opportunità di crescita che mi consentiva di imparare e migliorarmi, per riportare questo bagaglio nella mia squadra di provenienza. Le trasferta all’epoca erano una vera impresa, di norma si andava al massimo in Francia a Bourg-en-Bresse, per affrontare Les Violettes Bressanes, oppure a Tournus o Tolosa. Per quelle sfide ci si allenava un anno intero. Ovviamente tutto a nostre spese, ci si autofinanziava con raccolte fondi (lotterie, vendite di cuscini, spillette, calendari, ecc.); per l’alloggio venivamo ospitate nelle case delle giocatrici avversarie”.

MWB: “Le trasferte in pullman sono state una grande conquista dopo anni di spostamenti con le nostre auto e a nostre spese. Affrontavamo le francesi, che per noi erano già dei miti, con tanta esperienza oltre che nei club anche con la loro Nazionale. Noi eravamo ancora un gruppo di ragazze armate solo di tanta grinta e volontà. Ricordo una partita, dopo 24 ore di pullman, in una cittadina sulla costa atlantica, che si limitò ad un 5-0, nonostante il divario tecnico evidente”.

AR: “Si andò a Venezia per incontrare i vertici UISP, li convincemmo e così nacque la Nazionale femminile che il 22/6/1985 a Riccione disputò la prima gara ufficiale contro la Francia. La prima trasferta con il club fu in Francia, per affrontare le campionesse in carica del Tolosa; dovetti giocare pilone in assenza di Wally, unica istruzione da parte dell’allenatore fu quella di seguire la palla…Tra le avversarie ricordo le abilissime gemelle Fraysse, Nicole e Monique, primo e secondo centro anche della loro Nazionale”.

 

Cosa resta, in eterno, dell’essere stata una pioniera del rugby italiano?

BC: “Quando ho smesso di giocare in Nazionale ho sofferto molto la separazione, la malinconia si è trasformata in rifiuto e ho smesso finanche di seguire lo sport. Pensare che, da una cosa nata per caso, senza capo né coda, sia nato un movimento, e che dopo di noi tutto sia continuato e cresciuto, è qualcosa che mi inorgoglisce. I livelli a cui la Nazionale femminile è giunta oggi mi piace pensare abbiano radici in quello che abbiamo iniziato 40 anni fa. Ripeto, non è il nostro passato individuale l’importante, ma la consapevolezza che da lì sia derivato il presente e il futuro del rugby femminile italiano”.

AR: “Il rugby è stato la mia vita, non è stato facile distaccarmene. Resta che tra noi siamo amiche inseparabili, facciamo assieme e viaggi e condividiamo una unione forte, difficile da capire per chi non ha vissuto la nostra esperienza. Una realtà che oggi non è ripetibile. Allora aprimmo una porta nuova, un’opportunità che pareva inconcepibile a livello femminile. Resta l’orgoglio di esserci stata, come giocatrice prima e allenatrice poi: le Red Panthers hanno rischiato seriamente di sparire, in 3 o 4 momenti storici, sono sempre tornata a lottare perché non accadesse”.

 

Il redattore deve confessare la propria tendenza a seguire, sovente ma non sempre, un’idea precostituita, per cercare di dargli forma, ma solo se ce ne sono le condizioni. Con questo approccio, esecrabile dal punto di vista scientifico (e da quasi tutti gli altri), nei racconti qualche volta però ci si azzecca. Soprattutto se lo si usa a pensar bene, che peraltro – al contrario di pensar male- non è nemmeno peccato.

Mentre mi documentavo sulla storia delle Red Panthers, ancor prima di incontrarle, facevano capolino in testa alcuni versi, che parlano di pioggia e sole, che forse cambiano la faccia alle persone, e fanno il diavolo a quattro nel cuore. A vederle insieme, le nostre ragazze, si capisce che sono persone che tendono “la mano a mani vuote” (non solo nei passaggi della palla ovale), e che possono “con le stesse scarpe camminare, per diverse strade, o con diverse strade su una strada sola”.

Sono per voi, care pioniere, i versi di Francesco de Gregori, certi che, sempre e per sempre, dalla stessa parte, vi troveremo.

 

 

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