Non puoi fidarti di gente così
Il libro di Massimo Calandri sulla tourneé del 1973 della nazionale italiana di rugby in Sudafrica
Roma 1 agosto 2022 – Le storie di rugby, senza mancare di rispetto alle altre discipline sportive, hanno spesso significati che travalicano quello meramente atletico.
L’esempio più eclatante è la narrazione che Clint Eastwood, con il suo “Invictus”, ha dedicato all’evento simbolico della transizione della Repubblica Sudafricana oltre l’epoca infame dell’apartheid.
La Coppa del Mondo di rugby del 1995 in Sudafrica.
E’ ben noto infatti come Nelson Mandela, sull’onda della vittoria degli Springboks, abbia compiuto il miracolo del consolidamento della “Rainbow Nation”, la nazione arcobaleno.
C’è un’altra vicenda ovale, avvenuta in quelle terre oltre vent’anni prima, che merita di essere conosciuta, anche al di fuori della cerchia degli iniziati, degli appassionati e degli addetti ai lavori.
Parliamo della bizzarra tourneé del 1973 in Sudafrica della nazionale maschile di rugby, argomento del libro “Non puoi fidarti di gente così”, scritto da Massimo Calandri ed edito da Mondadori.
Ne è autore il giornalista Massimo Calandri, che quell’avventura ha ricostruito con dovizia di particolari, accurata contestualizzazione storica, grande passione e sincero affetto verso i protagonisti.
Della storia più famosa dianzi citata, il viaggio del 1973 può essere considerato un prologo, un fenomeno precursore della futura rivoluzione, pacata ma inarrestabile, guidata da Mandela.
All’inizio degli anni Settanta il Sudafrica è nel pieno del regime segregazionista e Madiba è rinchiuso nella sua angusta cella nel carcere di Robben Island, dove resterà a lungo, sino al 1990.
La federazione rugbistica sudafricana cerca di spezzare l’isolamento con cui la comunità sportiva internazionale stigmatizza l’apartheid.
Nella spasmodica ricerca di una nazionale da ospitare, accollandosi tutte le spese di trasferta, ai sudafricani resta come ultima scelta l’Italia.
Dopo che, da ultimo, anche la non blasonata Romania ha declinato l’invito (a causa dell’imperativo divieto arrivato da Mosca), ci si accontenta così degli azzurri.
E nonostante la fama di inaffidabilità degli italiani, esplicitata nella frase che è divenuta titolo del libro (contenuta nella conversazione del capitolo iniziale) il viaggio proibito diviene realtà.
Le resistenze dei vertici dello sport italiano vengono vinte grazie all’inserimento in programma, oltre agli incontri con varie rappresentative bianche, anche di una partita con i Leopards, la nazionale nera.
E’ una dibattito simile, ma meno celebre, rispetto a quello che tre anni dopo animerà la politica italiana e l’opinione pubblica sulla trasferta dei nostri tennisti a Santiago del Cile per la finale di Coppa Davis 1976, sotto i baffi di Pinochet.
Così il 13 giugno 1973 decolla da Fiumicino il volo Alitalia carico di rugbisti; un mese dopo esatto si ripartirà da Johannesburg.
Non andiamo oltre, lasciamo alle pagine del libro di rievocare quel viaggio compiuto, quasi mezzo secolo fa, da un’Armata Brancaleone (e lo si dice con affetto) di giovani rugbisti italiani.
I quali, a sentire i loro racconti quasi cinquant’anni dopo, ne tornarono profondamente cambiati.
A corredo di questo invito alla lettura, vogliamo prospettare una similitudine bislacca.
Nel settembre di quel 1973 si sarebbe spento a Bournemouth, nel sud dell’Inghilterra, John Ronald Reuel Tolkien, padre del genere letterario high fantasy.
Tolkien era nato a Bloemfontein, in Sudafrica, da famiglia inglese.
Ebbene, questa sottile connessione porta ad azzardare un paragone: che il libro di Calandri stia alla vicenda successiva raccontata in “Invictus” come “Lo Hobbit” sta alla saga del “Signore degli Anelli”.
Un prequel popolato da Elfi, Nani, Hobbit, Orchi e Maghi che si che si incontrano sui campi di quella Terra di Mezzo che è l’Africa australe.
Con un Gandalf rappresentato da Amos du Plooy, l’allenatore sudafricano chiamato a far da guida, in tutti i sensi, alla compagine italiana.
Nella quale c’era un genovese, un po’ Aragorn e un po’ Thorin: il capitano Marco Bollesan.
E ci stava pure un Bilbo Baggins, aggregato a quel viaggio inaspettato per redigerne il resoconto: il decano e maestro dei giornalisti italiani di rugby, Luciano Ravagnani.
Lascio a qualche altro appassionato di palla ovale e di saghe tolkieniane trovare similitudini tra la rosa dei giocatori e la compagnia dei Nani.
Tra cui spiccava un Balin, il più saggio, capace di tenere unito il gruppo: il rovigote Doro Quaglio, alla cui memoria confluiscono testimonianze d’affetto nelle pagine finali del libro.
Il 13 giugno scorso, 49mo anniversario della partenza del tour, si è tenuta a Roma una delle presentazioni del libro, che questa estate è in promozione per l’Italia.
Quel giorno, a parlarne con l’autore, c’erano due dei protagonisti; Gianni Villa, uno dei due commissari tecnici, e Ambrogio Bona, grande pilone azzurro.
E’ stata una delizia per lo spirito ascoltare quei racconti, il consiglio è di non farsi sfuggire l’occasione di assistere ad altri incontri in giro per il Paese.
Potete fidarvi di gente così, non ve ne pentirete.