Capitan Parisse guida l’Italia contro la Scozia

Roma, 16.03 2017 – L’Italia del rugby  è ad Edinburgo dove sabato tenterà di  superare la Scozia per evitare di conquistare il Woodden Spoon (il simbolico cucchiaio di legno che va a chi perde 5 partite su cinque).

Il calcio d’inizio è previsto per le ore 13.30 (Italiane, diretta TV DMax) per dare spazio nello stesso pomeriggio alle altre due sfide in programma nell’ultima giornata del Torneo delle Sei Nazioni e per una maggiore regolarità delle gare.  Non che ce ne sia bisogno,  perché nel rugby conoscere il risultato degli altri contendenti serve a poco perché, comunque, si tratta di una battaglia in cui si deve dare sempre il meglio senza tanti calcoli. Ma a vote il successo del Torneo, in caso di parità di punteggio è legato alle mete segnate, o alla differenza  di punti fatti e subiti. Ed allora, conoscendo i dati una squadra, si  può decidere di adottare una tattica o l’altra.  Sono cose che non si possono improvvisare all’ultimo momento perché il piano di gioco viene fatto in allenamento con grande  anticipo.

Comunque quest’anno non ci sono troppi calcoli da fare perchè l’Inghilterra si è aggiudicata in  anticipo il torneo con quattro vittorie  e nessuno può più raggiungerla anche se perde l’ultima sfida contro il Galles.

Venendo agli azzurri,  la Scozia  è la formazione  per risultati  più vicina all’Italia. Nel Sei Nazioni è stata battuta ben 7 volte. La prima nel match di apertura del primo Sei Nazioni cui gli azzurri parteciparono il 5 febbraio del 2000.  Con grande sorpresa generale perché le Cornamuse erano i detentori dell’ultimo titolo del Cinque Nazioni.  Da allora abbiamo battuto la Scozia altre sei  volte –  di cui 2  fuori casa al Murrayfield –  ma perdendo  10 volte.  In teoria, dunque, “si può fare”.

Ed invece, le cose non sono tanto semplici. Infatti la Scozia  mai  come quest’anno si è presentata così competitiva, vincendo 2 partite su 4 e perdendo di misura le altre 2.

Dunque gli azzurri si devono superare. Devono giocare due tempi, invece di uno solo.

È possibile? Sì è possibile. Manca un niente, infatti,  per poter  mantenere inalterata la tenuta di gioco per tutti gli 80 minuti.

Il problema italiano  si può riassumere in due momenti. Quello della circolazione rapida e puntuale del pallone fra avanti e trequarti. E quello della difesa sui contropiedi avversari.

Per il primo problema lavorando in allenamento si è raggiunta una discreta fluidità tant’è che le frecce azzurre Venditti,  Esposito, Bisegni e Campagnaro hanno potuto brillantemente mettersi in evidenza e segnare egregie e spettacolari  mete.

La mediana è cresciuta anche se c’è da chiedersi perché O’Shea  stia rinunciando all’apporto della esperienza del mediano di  mischia Tito Tebaldi, da lui, fra l’altro allenato fino ad un anno fa quando dirigeva tecnicamente il club londinese degli Harlequins prima di accettare l’incarico di C.T. azzurro. Tebaldi con il Benetton è stato di recente protagonista di una eccellente prestazione del Benetton contro i formidabili irlandesi dell’Ustler.

Il problema più grave, invece, appare la chiusure sugli attacchi estemporanei non programmati degli avversari. Nelle prima fase della partita la difesa azzurra monta ben allineata senza lasciare spazi in cui  possano incunearsi gli avversari. Poi, man mano che passano i minuti, l’allineamento viene a mancare e si creano  quei buchi che provocano un vero collasso difensivo e tante mete altrui.

A ben guardare non si tratta di pecche  irrisolvibili. Occorre, infatti, che il direttore della linea difensiva arretrata – il mediano di apertura, Canna od Allan, o chi ne facesse le veci in  quella circostanza – richiamino l’allineamento per tempo. Questo da un certo punto della partita in poi, non avviene più. Non  che gli azzurri non abbiano più energie nelle gambe. No, hanno perso la lucidità per quello che invece deve diventare un movimento scontato ed automatico.

Per raggiungere dei  buoni risultati non occorre tanto tempo, bastano pochi allenamenti mirati.

Non sappiamo se O’Shea abbia trovato il tempo per applicarsi a questo. Lo vedremo sabato. Ma la strada è quella e ci si può aspettare ad Edinburgo una partita assai competitiva.

In questo Sei  Nazioni l’Italrugby ha mostrato, tranne  nei finali, di essere all’altezza, come complesso di tutti gli altri.  Individualmente, però, dispone del giocatore da considerarsi il migliore al mondo in questo periodo, specie dopo che l’All Black Richie McCow ha attaccato le scarpette al chiodo.

Ne sanno qualcosa i francesi che l’hanno eletto come  migliore giocatore transalpino e capitano del club più importante di Parigi, lo Stade Francais conducendolo a due scudetti assoluti e miglior giocatore del campionato francese per il 2015. E che nella sfida all’Olimpico di una settimana fa lo hanno visto andare in meta di prepotenza ed intelligenza dopo pochi minuti di gioco.

Il giocatore abruzzese è l’unico rugbysta al mondo in grado di portare alla sua squadra un contributo determinante. In quanto è giocatore  e nello stesso tempo capitano. Cioè il leader tecnico e tattico della partita sul campo. Le sue scelte sono sempre determinante e spesso illuminate e vincenti.

È nel pieno della maturità tecnico ed atletica. E Grazie al cielo, ha deciso di continuare a giocare ed a servire la Nazionale azzurra,  fintanto che si sentirà in grado di farlo positivamente.

Alla vigilia di  una partita così importante e decisiva per  lo sport italiano, appare  obbligato conoscere più a fondo questo personaggio dalle vicende veramente molto originali

Sergio Parisse è nato a La Plata, Argentina il 19 settembre del 1983, ma da genitori italiani trasferiti all’estero per  provvisori doveri di ufficio, non  da emigranti. Il padre Sergio  Sr, è abruzzese e Campione italiano con l’Aquila  Rugby. Ha vissuto ed andato a scuola  in Argentina, tranne  periodicamente  per le  ferie del padre fatte nella casa di famiglia e con i parenti a L’Aquila.  Il capolouogo abruzzese è la città italiana del rugby ma Sergio ha imparato a giocare a rugby in Argentina all’età di 5 anni,  indirizzato dal padre.

Avendo mantenuto, per scelta di tutta la famiglia,  il passaporto italiano, a 17 anni  inizia a frequentare il rugby in italia  a livello di Nazionali giovanili e a livello di club, stabilendosi a Treviso presso il Benetton, vincendo qualche titolo.

Nel  2002, a 20 anni, esordisce in maglia azzurra contro la Nuova Zelanda ad Hamilton.

Nel 2005 si trasferisce a  Parigi per giocare per 12 anni   fra le fila dello Stade  Francais, vincendo scudetti e diventandone capitano.

Nonostante le pressioni  a diventare francese, comprese quelle della moglie francese, o meglio Miss France (Alexandra Rosenfeld), continua a dare il meglio di sé per e con la maglia azzurra. Di recente si risposa con una ragazza italiana (Silvia Bragazza), ma continua a giocare e vivere in Francia buona parte dell’anno.

Insomma,  in 33 anni ha vissuto tre vite,  una argentina, una italiana ed una francese (o tutte e tre insieme). In realtà quale è quella che  sente più sua alla vigilia della sua 126 esima maglia azzurra in 15 anni?

Chiunque abbia dimestichezza con Sergio e con i tanti abruzzesi che hanno onorato  la maglia azzurra – a cominciare dall’altro azzurro che scenderà in  campo al Murrayfield , l’avezzanese Giovanbattista  Venditti, un tipo alla Johan Lomu, costruito in acciaio – conosce la risposta:  italiano, Italiano due volte,  come lo diventano tutti gli italiani che il destino talvolta porta a vivere e destreggiarsi  lontano dalle mura di casa, orgoglioso come nessuno del proprio paese.

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