Da questa settimana gli spettatori di tutto il mondo televisivo e di sei stadi europei a Londra, Parigi, Roma, Edimburgo, Dublino e Cardiff (tutti esauriti da mesi), potranno seguire con passione (ma anche con gioiosa sportività e fair play) le 30 partite del Sei Nazioni, un evento per molti versi superiore ad un Campionato del Mondo.
Anche l’Italia fa parte di questo Gotha da 18 anni con benefici enormi per il movimento. Infatti, il giro di interessi e di denaro prodottosi nell’Italrugby a partire dal Nuovo Millennio, ha consentito a questo sport di fare passi da giganti sul piano organizzativo. Grazie a sponsor, introiti televisivi mondiali, biglietterie e marketing, la Fir ha potuto triplicare il numero di impiegati, impiantare numerose Accademie giovanili dislocate lungo tutto lo Stivale e, soprattutto impiantare due “Nazionali” permanenti (sotto il nome di Benetton e Zebre) dove si fanno le ossa gli azzurri partecipando al PRO14 cui partecipano i più forti club celtici e da quest’anno anche sudafricani.
A raccogliere i frutti di questa superorganizzazione, la Fir ha chiamato uno dei massimi massimi esperti, l’Irlandese Conor O’Shea protagonista vincente del processo di sviluppo che in pochi anni ha portato l’Inghilterra ai massimi vertici del rugby.
O’ Shea ha chiesto e la FIR ha dato. Il nuovo (dal 2016) CT ha creato attorno a sé un gruppo di specialisti di assoluta competenza scovati in tutto il mondo.
Tutto bene perciò? No, al contrario! In questo anno e mezzo l’Italia ha battuto soltanto squadre di secondo livello come USA e Canada e Fiji (a Catania in autunno, ma poi perdendo a Padova contro Tonga)
Un solo momento di gloria in questo periodo: il successo storico sul Sud Africa (la prima volta) a Firenze il 19 novembre 2016. Un 20-18 che aveva fatto sognare . Un fuoco di paglia che si è trasformato nel “cucchiaio di legno” (tutte sconfitte) dell’ultimo Sei Nazioni di un anno fa.
Perché l’Italrugby (che ha tutto) non riesce a decollare?
Probabilmente perché ha troppo. Ha perso la fame!
O’Shea è riuscito ad allargare in maniera sostanziosa gli elementi tecnicamente e fisicamente degni della scena internazionale. L’ambiente azzurro si è arricchito di tante facce nuove talentuose.
Poi, però, quando si entra in campo e la battaglia si fa vera, si evidenziano chiaramente i limiti fatali di questi giocatori perfetti nel compitino simulato e nei test, ma chiaramente inadeguati al grande rugby agonistico, dove la differenza la fa il carattere .
Non c’è niente da fare. Il grande giocatore di rugby deve essere in grado di sublimarsi in campo. Essere eroe. Una forma mentis che ti deriva dalla fame e che un professionista imborghesito ha ormai perso.
In Nuova Zelanda i 155.000 giocatori di rugby (da 8 anni comandano le classifiche mondiali) sono scremati non soltanto dalla tecnica e dal fisico, ma soprattutto dal livello di eroismo.
Cosa vuol dire eroismo? Metterci la faccia!!
Il nocciolo del rugby (anche, e soprattutto, quello attuale) è avanzare. Conquistare terreno in avanti per poter travolgere un avversario che arretra. In Nuova Zelanda ed altrove, ma non in Italia, il modo per caricare l’avversario e metterlo in difficoltà è aggredirlo portandosi avanti bassi e con il capo come ariete. Certo, ti puoi fare male… Ma è l’unico modo. Poi se l’avversario (anche lui eroe) riesce a buttarti giù, devi continuare ad avanzare magari arrancando ginocchioni….
Invece, in Italia continuiamo a vedere troppi caschetti protettivi e troppi avanti che aggrediscono offrendo la spalla o la schiena. Morale: non si avanza mai e l’avversario ha modo di rallentarti o renderti innocuo.
Diego Dominguez (alto 1,74 cm x 75 chili) che, realizzando 29 punti, portò l’Italia a sconfiggere la Scozia (campione in carica) nella partita di esordio al 6 Nazioni del 2000, dovette ricorrere tre volte al chirurgo plastico per rimettersi a posto i lineamenti e continuare a giocare fino a 36 anni.
Ecco da questo Sei Nazioni – che per l’Italia comincia domenica contro l’Inghilterra super di Eddie Jones – ci aspettiamo soprattutto di scoprire azzurri meno perfettini, ma più eroici. Professionisti di fatto, ma dilettanti nello spirito non rammollito dal benessere.