Roma, 27 maggio 2015 – La realtà, supera i film dell’orrore. Trovate nella giungla, a poche centinaia di metri dal confine, 28 di campi di prigionia molti dei quali potevano ospitare circa 300 prigionieri, costituiti da gabbie e fosse comuni, dove venivano tenuti prigionieri i migranti clandestini provenienti dalla Thailandia i quali, dopo aver pagato il “viaggio della speranza”, venivano tenuti prigionieri in quelle gabbie rese famose nei film di guerra sul Vietnam, in attesa che da casa pagassero il riscatto di circa 2mila dollari, una cifra enorme per gente ridotta veramente alla fame. Poi le fosse comuni, dove venivano gettati coloro che non ce la facevano a superare la prigionia o coloro per i quali il riscatto non era stato pagato ed erano solo un costo di mantenimento.
Rinvenuti finora almeno 139 corpi.
I campi sono stati rinvenuti, abbandonati da poco ed in fretta e furia, dopo una ricerca durata due settimane nella giungla dello stato settentrionale di Perlis, a poche centinaia di metri dalla frontiera. Infatti, sono stati rinvenuti utensili di cucina in ottimo stato e persino cibo non deteriorato: il che fa pensare a un abbandono recente, e probabilmente affrettato.
“Sono scioccato. Non ci saremmo mai aspettati una crudeltà di questo tipo”, ha dichiarato il capo della polizia nazionale, Khalid Abu Bakar, aggiungendo che alcune di quelle fosse potrebbero contenere più corpi.
Molto probabilmente, quei resti appartengano a migranti musulmani Rohingya in fuga dalla Birmania, o a bengalesi che spesso si avventurano nello stesso viaggio per sfuggire alla miseria.
I ritrovamenti confermano i sospetti che quel tratto di giungla era al centro d’un fiorente business transnazionale sulla pelle dei migranti. Ai Rohingya veniva prospettata la possibilità di un lavoro in Malaysia, Paese a maggioranza musulmana e quindi gradito e che aveva ospitato circa 50mila migranti per la carenza di manovalanza a basso costo in patria. Ma all’arrivo in Thailandia, dopo un estenuante viaggio su barconi sovraffollati, i migranti finivano prigionieri – o in schiavitù nel settore della pesca – finché le famiglie non pagavano un riscatto.
Da tempo, inoltre, si sospettava che in Thailandia i trafficanti godessero della complicità di funzionari locali ma anche di influenti appoggi in Malaysia.
L’emergenza umanitaria delle ultime settimane, con 3.500 migranti approdati in condizioni disperate sulle coste malesi, indonesiane e thailandesi, è anche il frutto dell’improvvisa stretta di Bangkok: minacciata di sanzioni americane ed europee, la giunta militare ha deciso di dire basta. Con i collegamenti interrotti, gli scafisti già in mare hanno abbandonato i migranti al loro destino. Solo dopo scene strazianti di barconi respinti, sotto le critiche della comunità internazionale, l’Indonesia e la Malaysia hanno accettato di accogliere i Rohingya per un anno. Ma le polemiche si allargano e oggi parole dure contro i propri immigrati sono venute anche dalla premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, che li ha definiti “mentalmente instabili perché fuggono dal Paese danneggiandone l’immagine”.