Le indagini costituiscono la prosecuzione di quelle condotte a seguito dell’omicidio del 17enne Federico CARANZETTI, avvenuto la sera dell’Epifania del 2014 a Roma, in via di Villabate angolo via Scozza (nel quartiere Tor Bella Monaca), attinto al capo da un colpo d’arma da fuoco. Ne era emerso come il giovane, poco prima di essere ucciso, avesse avuto una violenta lite con alcuni spacciatori di Tor Bella Monaca, a seguito della quale, uno di questi aveva esploso il colpo di pistola che aveva mortalmente ferito la vittima. Proprio le attività d’indagine disposte nell’ambito di quel procedimento avevano consentito di individuare oltre al presunto autore anche il contesto dello spaccio di droga nel cui ambito era maturato l’omicidio, che aveva luogo nel definito confine territoriale compreso tra i palazzi con numero civico 15 e 17 della Via Giovanni Battista Scozza, nel comprensorio noto come R10 del quartiere capitolino Tor Bella Monaca.
Nonostante le enormi difficoltà riscontrate dagli inquirenti a causa dell’impermeabilità informativa del contesto e la morfologia dei luoghi di ostacolo a controlli visivi diretti, le indagini hanno consentito di ricostruire con esattezza l’organigramma del sodalizio e a documentare numerosissime attività di spaccio riuscendo a “vedere dall’alto senza essere visti” (di qui il nome dell’indagine “Drone”).
Le modalità dello spaccio sono ripetitive e rispondono a un modulo collaudato: per i quantitativi maggiori, i sodali consegnavano alla donna di volta in volta il denaro necessario che gli spacciatori raccoglievano anticipatamente dai clienti. Per lo spaccio al minuto, invece, concorrevano nell’azione due o tre pusher, di cui due come vedette e uno incaricato della consegna dello stupefacente, dopo essere andato a prelevarlo presso un nascondiglio.
La donna, poi, provvedeva a retribuire gli spacciatori, i cui turni venivano organizzati preventivamente sulle 24 ore, mediante una percentuale sulle dosi di droga vendute. A tal proposito, proprio i vertici del gruppo hanno commentato tale forma di ricompensa come particolarmente “fruttuosa” poiché i singoli pusher sarebbero incentivati a sempre maggior impegno per ampliare le vendite e conseguire maggiori guadagni personali.
Il denaro ricavato dai pusher attraverso le vendite delle singole dosi, poi, veniva consegnato a sodali più vicini alla donna, la quale teneva puntuali annotazioni scritte – analogamente a una scrittura contabile aziendale – delle entrate in relazione alle consegne di dosi ai singoli collaboratori. A questi chiedeva poi conto del “non venduto”. Proprio per questo, nell’organigramma del gruppo vi era anche la figura dei “magazzinieri” responsabili della riscossione dei guadagni giornalieri, della distribuzione della droga ai pusher e del ritiro del non venduto.
L’organizzazione prevedeva tre livelli: un primo livello, costituito dalla donna e dal figlio 25enne, con ruolo propriamente direttivo. Erano loro – scrupolosamente attenti ad evitare contatti materiali con lo stupefacente trafficato – a dirigere con pugno ferro il gruppo, assumendo decisioni di tipo strategico sulle attività. Vi era poi un secondo livello, cui appartenevano i tre sodali di maggiore fiducia dei due capi (tre soggetti con età variabile dai 20 ai 30 anni), cui era demandato un ruolo di raccordo tra i vertici e gli spacciatori al dettaglio. I contatti con la “piazza” venivano tenuti esclusivamente da loro tre, sempre rapidi nel dar conto ai capi, della concreta turnazione dei pusher, del buon andamento dell’attività di spaccio o dell’esistenza di eventuali criticità.
Vi era infine il terzo livello, ovviamente costituito da tutti quei soggetti cui erano assegnate stringenti mansioni operative ed esecutive della cessione al dettaglio dello stupefacente.
Il fatto che l’organizzazione sia risultata in grado di movimentare in pochi mesi chili di cocaina a flusso continuo e solo nella ristrettissima zona di via Scozza, con acquisti per decine di migliaia di euro, evidenzia con nitidezza che la stessa rappresenti la propaggine di una più ampia organizzazione con aderenze a gruppi criminali radicati in Campania.
A riscontro delle attività del gruppo, nel corso delle indagini sono già state arrestate 23 persone per spaccio nella flagranza del reato e recuperato un quantitativo di cocaina pari a circa 4500 dosi.
Uno dei destinatari della misura cautelare in carcere è stato rintracciato nel corso della notte in provincia di Messina, suo luogo di origine, dai Carabinieri di quel Comando Provinciale e ristretto presso il carcere di “Messina Gazzi”.
L’operazione ha interessato oltre centocinquanta militari dell’Arma con l’ausilio dei cinofili, di un elicottero dell’Arma e di personale dell’8° Reggimento Carabinieri “Lazio”.