Stimato imprenditore spesso in trasferta negli States, Michele Petragnani Ciancarelli è socio del Circolo Canottieri Roma da un anno e mezzo.
Lavoro e restrizioni anti-Covid permettendo, frequenta spesso il club ed è proprio lì, nella sede di Lungotevere Flaminio 39, che il prossimo 28 settembre presenterà in un grande evento con tanti ospiti “Il fantasma della mia libertà” (Edizioni Effetto), romanzo che ruota attorno all’incubo 11 settembre basato su eventi realmente accaduti.
Vent’anni fa, l’allora ventisettenne Michele era infatti lì, al World Trade Center, al trentacinquesimo piano dell’American Express Tower (Three World Financial Center), edificio gravemente danneggiato dal crollo delle Torri Gemelle.
Quel martedì “celebravo emozionato il mio primo giorno di lavoro, unico italiano del gruppo dei nuovi. Il giorno prima ci avevano illustrato tutto, compresi sistemi di sicurezza e procedure d’emergenza. Presi quest’ultimo aspetto semplicemente come una formalità”.
Michele ancora oggi racconta come un fiume in piena di parole ciò che avvenne quella mattina. “Da lì, ero a circa venti metri in linea d’aria dalla Torre Nord“.
Talvolta si ferma per riprendere fiato, riprendersi dall’emozione. L’arrivo al mattino presto “per fare buona impressione”, la cancelleria da preparare; poi quell’urto gigantesco, le strutture e persino i vetri che si piegano, la voce dall’altoparlante che rassicura e parla semplicemente di un bimotore schiantatosi su una delle torri, “ma un bimotore – pensai – non può lasciare un disastro simile”.
La telefonata al padre a Roma che sta guardando tutto in tv, lo schianto del secondo aereo (“A quel punto, molti tra parenti e amici temettero il peggio per me“), la cornetta del telefono gettata in un angolo, la fuga per trentacinque piani saltando da un pianerottolo all’altro e rompendosi un piede all’ennesimo salto.
Finalmente in strada, un altro inferno: un delirio di polvere, cenere e sangue. Il resto, Michele lo racconta in questa intervista.
Anzitutto come vivrai la ricorrenza dei vent’anni dall’attacco al World Trade Center di New York?
“Senz’altro con sentimenti contrastanti. Sarebbe stata una ‘normale’ ricorrenza di quel giorno tragico, anche se di normale non potrà mai avere nulla. Ma gli ultimi eventi in Afghanistan non possono che far tornare tutto d’attualità”.
Davanti agli occhi cosa rivedi?
“Tutta quella giornata. Tra i particolari che mi rimangono maggiormente impressi, sia la Cnn che la filodiffusione nel palazzo che parlavano di un bimotore, mio padre che al telefono urlava ‘Michele! Michele! Michele!’ Vidi la gente morire: non appena la ‘giacca nera’ di fumo sulla Torre Nord si diradò, cominciai a vedere lapilli incandescenti cadere giù. Alcuni di questi non potevano essere semplici detriti e da lì realizzai. Fin quando non vidi nitidamente questa donna con i capelli neri: dapprima si affacciò, poi si gettò nel vuoto”.
A quel punto, seppure in preda allo shock, fuggisti.
“Cominciai a scappare temendo che un terzo aereo si sarebbe schiantato contro il nostro edificio. Finalmente fuori, e con un piede rotto, correndo notai la gente che cercava di entrare nei negozi. Mi accorsi che non si trattava di semplici sciacalli: cercavano telefoni con cui avvisare qualcuno. A Union Square presi la metropolitana che avevo fino a quel punto evitato. Lì trovai un altro superstite ferito e ricoperto di sangue. Rientrato a casa, nell’Upper East Side, vidi in tv il crollo delle torri. Nel frattempo, il vento che girava da sud riportava un odore tremendo di acciaio e materiale fuso. Mi entrò nelle narici. Per sempre”.
Per un anno hai dovuto convivere con il disturbo da stress post traumatico (PTSD).
“Nel libro lo racconto attraverso l’incontro tra la protagonista e un senzatetto, reduce dalla guerra in Vietnam. Quando mi diagnosticarono il disturbo, mi spiegarono che ci sono delle analogie con i reduci di guerra: comporta flash-back e allucinazioni multisensoriali che arrivano in maniera violenta durante le attività di tutti i giorni. Qualcosa di distruttivo. Mi misi in aspettativa per 6/7 mesi perché gli attacchi sono troppo invalidanti: allucinazioni di giorno, incubi di notte, attacchi di panico, fasi di ipo e iperattivazione psicologiche. Dovetti seguire un percorso psicoterapeutico e farmacologico”.
Perché un libro ora?
“Non perché sia pronto. Non lo ero vent’anni fa, non lo sono oggi e, probabilmente, non lo sarò tra vent’anni. Ho capito che la veste narrativa fosse l’unico modo per raccontarlo. Ho scelto allora una spy story, un thriller psicologico”.
E la scelta di una donna come protagonista?
“Non so rispondere a questa domanda. Probabilmente in maniera inconscia ho scelto questa strada per cercare di allontanarmi il più possibile dalla realtà”.
A chi ti rivolgi oggi?
“Il mio primo pensiero va a chi non ce l’ha fatta. In quell’attentato, la mia azienda perse dodici persone. C’è una cosa che certo non troverete in nessuna guida turistica: all’interno della lobby dell’American Express Tower è rimasto un memoriale, una meridiana ricoperta da uno strato d’acqua. Col passare delle ore, delle gocce vanno a colpire il nome di ciascuna di queste dodici persone che rappresentano un’ora diversa della giornata. La goccia cade, increspa l’acqua che poi però si ferma e torna a rendere leggibile quel nome. Sono romano, noi romani siamo circondati da tantissimi monumenti, ma la potenza espressiva di quella meridiana resta formidabile”.