Il novecento, definito il secolo più cruento e violento con due guerre mondiali. L’attuale come sarà giudicato?

Eric Hobsbawm, morto a 95 anni nei giorni scorsi, era uno storico che, in quanto marxista, privilegiava l’analisi dei fattori economici e sociali ed è stato lui ad ideare il termine “secolo breve” per definire il Novecento. Il “Secolo breve” seguiva il “secolo lungo”, cioè l’Ottocento, che per Hobsbawm aveva avuto inizio con la Rivoluzione francese del 1789 e l’emancipazione della borghesia per terminare con l’inizio della Grande Guerra nel 1914.

“Il Secolo breve” venne pubblicato in Italia nel 1995 dalla casa editrice Rizzoli con il titolo “Il Secolo breve – 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi”. Il libro, un vero best seller, da me letto all’uscita e riletto nel 2004 per la preparazione del mio primogenito agli esami di maturità classica in quanto vi aveva incentrato la propria “tesina”, ha scandagliato il gran quadro della storia del XX secolo, il secolo per molti aspetti più violento perché dette origine e sviluppò rivoluzioni e due guerre mondiali, ma anche un “secolo breve” per l’accelerazione data alla storia e alla vita degli uomini.

Hobsbawm divide il ‘900 in tre parti: “L’ età della catastrofe”, dal 1914 al 1945, con il primo e il secondo conflitto mondiale e le crisi che li contraddistinsero sino alla dissoluzione di tutti i grandi imperi, il russo, il tedesco, l’ austriaco e l’ottomano; “L’ età dell’oro”, dal 1946 al 1973, cioè la fine del colonialismo, le scoperte in campo medico e scientifico, la crescita dell’economia fondata sul capitalismo e il liberismo, come sull’ economia di stampo comunista; infine, una terza parte, denominata “La frana”, che va dal 1973 al 1991, cioè sino alla caduta del muro di Berlino, con il dissolvimento dell’Urss e la conseguente fine della Guerra fredda e delle ideologie totalitarie.

Aveva ragione Hobsbawm, davvero il ‘900 è stato il secolo della violenza; tutto quello che gli uomini hanno sofferto nel tempo si annulla davanti ai cento milioni di morti del secolo breve. In relazione al tema guerra, abbandonando gli eventi tragici del ‘900, analizziamo invece come oggi, nel nuovo secolo e nuovo millennio, noi occidentali viviamo tale dramma che ci incombe cupo e minaccioso. I conflitti che sino all’inizio del ‘900 coinvolgevano e impegnavano in massima parte, al 90%, i militari combattenti e minimamente la popolazione civile (nella prima guerra mondiale, la percentuale di vittime civili iniziò a lievitare aggirandosi tra il 10 e 15 %; percentuale che aumentò nella seconda guerra sino al 40%, e questo per i bombardamenti strategici su città e impianti industriali) vedono oggi ribaltarsi tale dato in quanto nelle guerre attuali l’incidenza dei morti tra le popolazioni civili si aggira sul 90% dei caduti complessivi. Un dato che ai più sfugge, ma che certamente suscita fondati motivi di preoccupazione soprattutto per le generazioni future.

Il sociologo Alessandro Dal Lago spiega molto bene, nel suo bel libro dal titolo:”Carnefici e spettatori- La nostra indifferenza verso la crudeltà” Raffaele Cortina Editore, Milano, 2012, qual è l’atteggiamento di noi occidentali nei confronti delle guerre in corso o comunque recenti. Dal Lago fa riferimento al principio di invisibilità della guerra, giunta ormai a livelli surreali; le guerre vengono combattute nella massima indifferenza e rimosse con rapidità; seguiamo gli eventi sui media, che hanno un ruolo importante e fanno parte integrante della strategia militare complessa; quel gran circo mediatico, che fornisce a centinaia di milioni di persone, quali spettatori passivi, un vero e proprio copione dello spettacolo, che è uno scenario di morte e violenza inaudita, il tutto appreso e visionato in diretta. Sì, perché proprio di spettacolo si tratta e affermando questo dobbiamo avere consapevolezza di vivere in una vera e propria società dello spettacolo (dal titolo del libro “La società dello spettacolo” del francese Guy Debord, della seconda metà degli anni ’70, che analizzava molto bene l’alienazione derivante dal consumismo e dal dominio dei media).

Insomma, indifferenza, invisibilità e forse anche ipocrisia caratterizzano i tempi attuali; sì, anche ipocrisia, perché giustifichiamo la guerra rassicurandoci, e facendo ciò affranchiamo da qualsivoglia responsabilità la nostra coscienza, che si tratta di missioni di pace e di operazioni di polizia internazionale, e non già di guerre guerreggiate che uccidono, al 90%, bambini, vecchi, donne e uomini inermi! E così, con leggerezza, si parla con affettata distrazione di un possibile attacco di Israele all’Iran mentre taluni caldeggiano un intervento in Siria per neutralizzare il Presidente Bashar al Assad.

E mentre partecipiamo a questo balletto infernale, i più hanno già dimenticato i massicci bombardamenti aerei della guerra NATO in Libia contro Gheddafi della primavera dell’anno scorso, non di cinquant’anni fa; quello stesso Gheddafi, prima osannato e ben accolto dagli Stati e soprattutto dall’Italia per il suo petrolio e il suo gas.

Ma questi lietopensanti, ci chiediamo, lo sanno che la guerra è foriera di altre tragedie e che le guerre combattute negli ultimi anni poco o nulla hanno conseguito a vantaggio delle popolazioni che le hanno direttamente e sulla propria pelle subite?

Concludo, consigliando per quanti volessero approfondire il concetto di ipocrisia che avvolge la guerra contemporanea, il recentissimo libro di Fabio Mini, Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito nella Riserva, già Comandante delle Forze NATO in Kosovo, nell’ambito della missione KFOR, “Perché siamo così ipocriti sulla guerra”, Chiarelettere editore, 2012, con interessanti approfondimenti sulla normalizzazione dei conflitti contemporanei. Restando, infine, sempre in tema di conflitti terribili, rinnovo l’invito a leggere il bel libro recensito giorni fa su questa testata, “Il modello americano- Relazioni del Generale G.C. Marshall- Strategie ed operazioni” di Umberto Bisetto e Mauro Caporello,- Edizioni Aurelia, Asolo 2012.

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