Il titolo, “LA STRAGE DI NEW ORLEANS”; l’autore, il grande Giuseppe Prezzolini (1882-1982), voce culturale del ‘900, con interessante postfazione di Beppe Benvenuto (Milano, 2013). Sì, Prezzolini, la voce culturale del primo novecento, perché proprio con “La Voce” (rivista fondata nel 1908 con pubblicazioni fino al 1916 ), dominò il panorama politico culturale dell’Italia giolittiana. Vi collaborarono i più bei nomi dell’alto sapere di allora:da Giovanni Papini a Gaetano Salvemini, da Luigi Einaudi a Giovanni Amendola, a Emilio Cecchi e a molti altri. Accanto ai grandi temi, Prezzolini indicò le linee guida del giornale in questi termini: “Noi sentiamo fortemente l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia ed il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito….. Di lavorare abbiamo voglia. Già ci proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano di ideologie e di informare, senza troppa smania di novità, di quel che meglio si fa all’estero; di proporre riforme e miglioramenti…, di occuparci della crisi morale delle Università italiane; di segnalare le opere degne di lettura e di commentare le viltà della vita contemporanea”. Suscitò scalpore un articolo di Gaetano Salvemini: “Coco’ all’Università di Napoli, o la scuola della malavita” che dette inizio ad una lunga battaglia contro i potentati accademici dell’università italiana; infatti, si dovrà proprio ai collaboratori della “Voce” l’espressione oggi in voga sui “baroni universitari”. Dagli anni Trenta residente a New York in qualità di docente universitario alla “Columbia”, Prezzolini fu incisivo osservatore della realtà americana come anche delle vicende che riguardavano la comunità dei nostri emigrati e, come corrispondente per vari giornali, ne “La strage di New Orleans”, reportage del 1958, raccontò il primo episodio clamoroso in cui furono implicati i siciliani di quella città. “La parola mafia (scriveva Prezzolini) arrivò in America nel 1891 in seguito ai fatti di New Orleans, ora dimenticati di qui e di là dall’oceano; ma che al loro tempo ebbero una grande pubblicità nella stampa degli Stati Uniti e dell’Italia e portarono persino all’interruzione delle relazioni diplomatiche fra i due paesi”. Raccontando quei fatti, ci mostrò come già sul finire dell’Ottocento l’infiltrazione della mafia siciliana nel territorio americano fosse diffusa. A scatenare la belluina ritorsione degli americani fu l’omicidio, il 15 ottobre del 1891, del Capo della Polizia della città, che aveva cominciato ad indagare negli affari illeciti di due clan italiani che si fronteggiavano nel controllo del mercato della frutta; sembrava, infatti, che il superpoliziotto volesse favorire i Provenzano rispetto ad altra famiglia mafiosa, tanto che il boss, soprannominato il “re degli agrumi”, gli fece sapere che era meglio “non mescolarsi dei fatti degli altri, cioè di loro siciliani, altrimenti l’avrebbero fatto finire dentro una scatola” (cioè una bara). A seguito delle indagini, furono identificati 11 presunti responsabili che nel processo vennero però assolti. Opinione comune era che i magistrati erano stati corrotti e l’ira popolare esplose portando nella notte del 14 marzo 1891 all’uccisione sommaria di nove italiani, tutti siciliani, ritenuti mafiosi. Giuseppe Prezzolini osserva che “questo episodio storico va preso come una prova che l’emigrazione è stata una tragedia e che le difficoltà d’intendersi fra popoli e razze diverse sono immense, e che certamente gli uomini non sono buoni fra di loro, e forse anche che sono necessariamente cattivi, quando si riuniscono in gruppi e non pensano tanto a sé quanto agli interessi del gruppo…”.
Questa è una riflessione oltremodo interessante, soprattutto alla luce di quanto sta accadendo oggi in Italia dove serpeggiano semi di motivata intolleranza a causa della incontrollata e invadente presenza di stranieri criminali europei ed extra. A completamento, nella bella ed esauriente postfazione al libro, Beppe Benvenuto conclude citando un articolo di Prezzolini del 1951:”Vorrei che gli Italoamericani capissero che la Mafia è stata una loro creazione in America, il passaggio dalle elementari siculo calabresi alla università di Chicago. Si affannano a dire che la Mafia non esiste! Imbecilli. Dovreste dire che la Mafia domina in nove città su dieci d’America ed è tutto quello che l’America ha perfezionato in questi figli adottivi…”.
Sul fenomeno mafia, come raccontato da altro illustre personaggio di quei tempi, ad agosto pubblicammo un articolo su questa testata dal titolo: “Napoleone Colajanni, oltre cent’anni fa descriveva mafia e corruzione”, dopo la lettura del libro “Nel regno della mafia”, scritto dall’eminente Parlamentare nel lontano 1900, da maggio scorso di nuovo in libreria. Nelle ultime pagine, l’autore affermava:”Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il Governo italiano cessi di essere il Re della Mafia..(..e ancora..)..Si può debellare la Mafia coi metodi mafiosi? Si può combatterla servendosi dei mafiosi nei momenti elettorali? Si può restituire ai cittadini colla iniquità fatta regola la fede nella giustizia? No, mille volte no!”. Da questi due libri tante verità ancora attuali ed una grande lezione di morale ormai perduta. Oggi, di mafie, se ne parla solo quando l’attenzione è attirata da fatti di cronaca importanti ovvero quando taluni settori politici, sostenuti da certa stampa, sollevano il problema all’interessato comando di ambiti modesti e moralmente insignificanti se non addirittura osceni. Quel che manca, rispetto al passato, è la voce libera, continua e potente sia di uomini di alta cultura e di pensiero indipendente, sia di esponenti politici autorevoli e integerrimi, proprio della caratura d’acciaio di Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini e Napoleone Colajanni, ed altri ancora…..tutti di un passato lontano, proprio tanto lontano!