La battaglia di Lepanto (7 ottobre1571) è uno di quegli avvenimenti epocali che cambiano il corso della Storia, e di questo enorme impatto ne sono consapevoli sia i contemporanei dell’evento, sia le generazioni successive.
Ne ho avuto la prova contemplando nella Chiesa Pieve Collegiata di San Ginesio, nelle Marche, un quadro del 1609 del pittore Mercurio Rusiolo, dove con plastica drammaticità si assiste allo scontro delle navi, mentre dal cielo Santi ed Angeli incoraggiano le forze della Cristianità.
San Ginesio è la patria di Alberico Gentili (1552-1608), fondatore della scienza del diritto internazionale. Era diciannovenne all’epoca della battaglia, e il suo atteggiamento di fondo verso l’impero ottomano è di irreconciliabile ostilità. Tale ostilità non deriva né da causa di religione né da inimicizia naturale. Si legge infatti nella sua opera fondamentale, scritta nel 1598, De Jure Belli, libro I, cap. 12: “È in corso una guerra contro i Turchi perché essi si comportano sempre da nemici, ci insidiano, ci minacciano e, con grande perfidia, sono sempre pronti a depredare i nostri beni”.
Peraltro, come bene osserva il Prof. Diego Panizza dell’Università di Padova, Direttore del Comitato scientifico del Centro Italiano di Studi Gentiliani, secondo Gentili il sultano ottomano è sovrano legittimo, anche se “infedele”, vale a dire è soggetto legittimo di diritto internazionale. È perciò lecito avere relazioni diplomatiche con governanti musulmani: “Est et cum Mahumetistis commercium legationum” (“De Legationibus”, Il, 11).
Ciò trova conferma nel libro III del “De Jure Belli”, cap. 19 intitolato “Se sia giusto stringere patti con uomini di religione diversa”. Qui egli accetta la legittimità di varie forme di cooperazione con gli infedeli, inclusi i trattati di commercio. Tuttavia egli avanza anche l’argomento che le alleanze militari con gli infedeli sono sempre illecite: “Io rimango dell’opinione di un dottissimo teologo del nostro secolo” (si trattava di Pietro Martire Vermigli), il quale sostiene che si può stare in pace con gli infedeli, ma non è mai possibile unire conformemente a giustizia le nostre armi alle loro.
Abbondano nel testo le notazioni critiche sui Turchi come “genti barbariche”, “spregiatori di ogni costume e di tutto il diritto bellico”. “Tipico di costoro è agire con ingiusto inganno, combattere col veleno, condurre guerre di sterminio e reintrodurre quella schiavitù ormai eliminata da tutte le guerre tra i cristiani”.
Citando lo studioso britannico Noel Malcolm (“Alberico Gentili and the Ottomans”, in “Atti della XII Giornata Gentiliana 2006”, Milano, Giuffré 2008), Panizza si sorprende dell’intransigenza quasi “teologica” del divieto di alleanze con gli infedeli, “ossia la sua natura assoluta e incondizionata, in contrasto con la caratteristica moderazione gentiliana”. Potremmo azzardare una spiegazione: per Gentili questo divieto corrispondeva ad un imperativo morale. Utilizzando la terminologia del-l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, potremmo dire che era per lui una norma di jus cogens, accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati, che in quel tempo era la respublica christiana.
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