Palazzo Margutta a Roma ospita fino al 5 giugno una antologica di Renzo Verdone

Fino al 5 giugno, a due anni dalla sua scomparsa, Palazzo Margutta dedica un’antologica all’amico Renzo Verdone, esponente di spicco di una “pittura colta”.

In esposizione nella storica sede al civico 55 di Via Margutta, circa 30 opere che rappresentano un interessante spaccato della sua feconda attività pittorica.Grazie alla mostra il pubblico ha modo di conoscere a pieno questo appassionato artista. L’esposizione rappresenta – attraverso una trentina di opere, tutte realizzate con tecniche diverse – un significativo excursus nella produzione di questo straordinario artista dal riconosciuto talento e ne racconta egregiamente la prorompente forza creativa. Caratterizzato da una travolgente carica interiore e da un linguaggio pittorico forte, Renzo Verdone è dotato di una profonda curiosità intellettuale che trova sfogo nell’apertura verso linguaggi diversi e che gli consente di destreggiarsi abilmente sia con la tela e l’acquaforte che con il disegno, passione quest’ultima che non si interromperà neanche negli ultimi giorni di vita. Verdone matura la propria preparazione artistica a stretto contatto con i gruppi sperimentali delle Gewerbeschule di Berna e di Zurigo, che raggiunge dopo aver lasciato, ancora giovanissimo, l’Italia e con i quali compie accurati studi di ricerca figurativa, scultura e nudo. Rientrato in Patria, consegue il diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma e inizia un’intensa attività artistica, frequentando l’ambiente culturale della Capitale. Dal 1971, anno della sua prima personale, sono molteplici le esposizioni alle quali prende parte, così come i riconoscimenti che gli vengono attribuiti (tra cui anche la Medaglia d’oro del Presidente della Camera dei Deputati e il Trofeo C.I.S.A.C.) e che testimoniano la validità e il continuo rinnovarsi dell’uomo e dell’artista. Scompare a Roma nel 2011. Quella di Renzo Verdone è una pittura colta rigorosamente figurativa, seppur con richiami ad altre istanze rappresentative, fra cui quella simbolista, un’arte capace di investigare nell’oscurità del sogno e nei territori dell’inconscio, “una pittura che” – come scrive Barbara Scaramucci – “scava nell’animo, che ci colpisce per la sua intensità (…)”. In mostra nell’esposizione organizzata da “Il Mondo dell’Arte” soprattutto oli su tela e tempera, di dimensioni diverse, ma anche disegni e acqueforti, tutti lavori nei quali è evidente la capacità con cui Verdone padroneggia la tecnica e il segno, che si mostrano sempre solide e raffinate  ed è forte la profonda testimonianza della ricerca grafica e pittorica alla quale l’artista si dedica continuamente. La violenza dei chiaroscuri, nitidi e sicuri, la forza penetrante e l’anatomia dei soggetti ritratti ricordano i drammatici nudi rappresentati da grandi Maestri del passato, Masaccio e Mantegna in special modo. Ma nella mostra in programma a Palazzo Margutta così come nell’arte di questo Maestro introverso, pensatore e poeta al tempo stesso, lo spettatore ritroverà anche altri temi pittorici della classicità – l’Eros sensuale, il presentimento del dolore, della morte, di Dio – e ancora forti sentimenti contrastanti che vanno dalla positività, rappresentata dalla bellezza dell’essere umano, alla negatività, raccontata attraverso l’angoscia e la solitudine che spesso dominano questa epoca di freddezza, di indifferenza e quindi di amarezza.  Di lui hanno detto: “La pittura di Renzo Verdone si collega alla tradizione del «bello estetico» di ordine classicistico, avendo l’artista espresso la convinzione che il suo “saper fare” non va slegato dal rigore, che si è andato perdendo, delle tecniche del passato e dai linguaggi che si sono succeduti nel tempo. E questo perché il rispetto della tradizione per Verdone passa attraverso la rivitalizzazione non solo delle forme acquisite dalla storia dell’arte, ma anche dell’immaginario collettivo moderno che le ha aperte al movimento, all’infinità spaziale e luminosa, secondo quei linguaggi che hanno accompagnato gli artisti nel cammino verso il continuo presente. AI contrario degli anacronisti bloccati alla ricerca della «cosa in sé» fuori del tempo, Renzo Verdone ha invece affrontato il percorso linguistico dei tempi, portando le sue forme – come è stato detto per quelle dei neo manieristi – ad «essere assolutamente moderne a costo di sacrificare qualunque modernismo». Il sacrificio riguarda le tipologie nominali del futurismo, surrealismo e astrattismo, ma non l’idea del movimento plurispaziale, le campiture bidimensionali e astratte, gli automatismi in grado di liberare le ossessioni inconsce, mitigando il bello platoniano ed estetizzante”. (Luigi Tallarico). “La vicenda dell’uomo con la sua forza interiore e la sua esistenziale realtà è cosa che subito si avverte nei saldi dipinti dell’artista. Dove l’umana presenza è sentita in aspetti di poderosa strutturazione morfologica, di vitale intensità e di travolgente carica interiore. Il suo perentorio impegno è teso a far si che i sentimenti che animano le sue opere, l’impulso emotivo che per intero le permea e quella viva, ardente volontà non abbiano a spegnersi. Così per la spirituale tensione che alimenta codesto esasperato volere e per la cruda verità che affronta, le figure, i nudi di Verdone paiono intagliati nella scabra durezza della selce sino ad immobilizzarsi nella ferma monumentalità del simbolo. E ad un tempo, il colore carnale di quelle forme pare dare vibrazioni d’esistenza e palpiti di vita. Nei temi trattati è facile cogliere richiami di classica ascendenza da cui derivano lo stile dell’artista ed un gusto che quella nobiltà rinnova ed avvia nei modi della “Nuova Figurazione”. (Vittorio Scorza). ”Dolore, morte, Dio (o verità che è identica cosa), ansia nella conduzione della ricerca: questi i temi, gli stati d’animo di una pittura peraltro molto bella. Immerso nel magma spesso inconoscibile dell’esistenza, vuole indagare le forme, le fasi evolutive, i possibili accadimenti, le eventualità di soluzione. E’ tutto un fluire di pensieri. Un discorso aperto insomma, in cui tutto è dialettica; tutto è ricerca, tutto è sempre, e comunque, da dire. Questa del resto la vera forma di un artista: ricercare. In divenire quest’opera. Il risultato di grande, eccellente maturità della forma, si imbatte nell’indagine di fondo, quella umana in fase evolutiva con tutte le sue anfrattuosità e discrepanze. Un divenire che ha dei punti di forza notevolissimi (le situazioni colte), concentrati appunto in una robusta tecnica pittorica con soluzioni figurali molto ben risolte, tutte d’estrema efficacia rappresentativa, dalla cromia illividita, la figura asciutta. Aspetti di un discorso in ansiosa attesa di una possibile, virtuale soluzione al quesito. La forma ne sorte stravolta. La forma è un modulo, un archetipo; sempre identica a sé, diviene quasi oggetto, anche se carico di dolenza. Varia la composizione e la positura dell’immagine, varia il titolo, il senso, ma la figura permane quale immutabile simbolo. (…). Moduli e segni dunque, unicamente di Verdone, per esemplare una tesi, esporre un dilemma, significare uno status o condizione umana in profondità indagata. Interessante ricerca e sensibilissima. Notevole l’impostazione del quadro nella suddivisione a scomparti, a spazi geometricamente definiti con la figura inserita in una scansione precisa. Rigorosità di impaginazione ed indiscussa qualità pittorica. Un quadro che è sintesi di forma e compendio di pensieri; un’immagine che ferma l’avvenimento, il fatto, offrendone nel contempo la verifica. E’ inquietudine vibratile, ansiosa”. (Clotilde Paternostro). “La ricerca pittorica e grafica di Renzo Verdone è questa ostinata irriducibile sfida all’impossibilità di dare alle immagini, soprattutto della memoria, una dimensione di assoluta soggettività, quasi che ciò consentisse di superare l’oscura barriera della morte, questa presenza che scava il segno e gli dà una strana, fredda luce.  (…). Così Verdone, in questa sua impeccabile precisione, ornata da visioni e presentimenti, semplifica soprattutto nei disegni ultimi la realtà della sua pittura, si emancipa dal simbolismo che impediva l’affondo nelle dimensioni dell’inconscio e tratteneva una più compiuta coscienza delle motivazioni sotterranee e trova forza in questo silenzioso dialogo con una situazione interiore che il segno e la pittura devono trasformare in immagini. Immagini, cioè immediate, precise, nitide da comunicare il significato di questa lotta al limite col nulla sino a mettere allo scoperto una autentica possibilità. Che non sia soltanto ritornante illusione, nelle oscure tensioni dei nervi, nelle febbri che gonfiano il sangue, nel sogno che annulla i confini di una falsa realtà, nel gesto, in questo abbraccio che il tempo inghiotte ma che il nulla rende assoluto, in quel tratto che scompare, che non è più raggiungibile e rende insormontabile la distanza tra le labbra protese nel bacio, tra i volti e la mano isolati, gli uni e l’altra da questo tratteggio fittissimo che si chiude in ombra divorante di tutto ciò che non è volto o mano. E nel vuoto che non consente di ritrovare il corpo, in questa vastità di assoluta e glaciale solitudine, il mistero di questo desiderio, di questo amore che ha dato inizio al gesto poi interrotto e che oltre il tempo sarà possibile ritrovare realizzato.(…). Basta un punto a fermare l’inesorabile trionfo della morte e segnare l’apparizione dell’essere. E’ un modo questo di tradurre il simbolismo nel problema che cercava di risolvere, di ritrovare la dimensione non decadente del senso della morte, di compiere il passo verso la vita, mediante il quale la pittura trova una sua funzione; una sua attualità, una sua realtà in questa consumazione di noi nei giorni che vengono”. (Elio Mercuri)

 

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