Risolto il mistero della morte dell’Imperatore Enrico VII
Le analisi sulle spoglie del sovrano hanno svelato dettagli anche sul rituale funerario a cui fu sottoposto il cadavere durante il trasporto a Pisa.
Non fu avvelenato dai suoi nemici, né morì a causa della malaria: la morte di Enrico VII fu causata dagli effetti collaterali della cura a cui l’imperatore si sottoponeva per l’antrace (o carbonchio), la malattia contratta probabilmente da uno dei suoi cavalli e che prevedeva la somministrazione terapeutica di piccole dosi di arsenico. Dopo un’accurata e meticolosa ricerca, Francesco Mallegni, docente dell’Università di Pisa e direttore del Museo archeologico dell’Uomo di Viareggio, ha risolto il mistero che per sette secoli ha accompagnato la morte dell’imperatore avvenuta nel 1313 a Buonconvento.
Il professor Mallegni ha potuto condurre le sue analisi sulle spoglie di Enrico VII grazie a un’operazione coordinata dall’Opera primaziale pisana che alla fine del 2013 – a 700 anni dalla morte dell’imperatore – ha permesso di riesumare i resti ossei del sovrano conservati nel Duomo di Pisa, per rilievi antropologici e patologici: «Da circa un anno, Enrico VII soffriva di antrace – spiega Mallegni – una malattia che lo aveva attaccato durante l’assedio di Firenze e lo aveva costretto a ritirarsi a Pisa, città ghibellina da lui molto amata. Di lì era partito per l’impresa napoletana contro il riottoso e infedele Roberto d’Angiò seguendo la via Francigena, ma il male inesorabile, con grandi sofferenze, lo fece soccombere nei pressi di Siena».
La malattia si era manifestata con una piaga al ginocchio e l’infezione fu causata molto probabilmente da un cavallo malato che, con la pecora, è il vettore principale di diffusione di questa infezione batterica: «Le fonti contemporanee alla vita e alla morte di Enrico VII parlano di una malattia ben precisa, l’antrace, che lo aveva colpito agli arti inferiori e aveva fatto il suo decorso di solito rapidissimo, rallentato però dalle cure a base di unguenti all’arsenico, l’unico che poteva tenere “a bada” il malanno, ben sapendo, i medici curanti, che un eccesso poteva portare all’avvelenamento e alla morte».
La ricerca ha fatto luce anche sul rituale funerario a cui fu sottoposto il cadavere del sovrano durante il trasporto a Pisa, dove Enrico VII aveva espresso il desiderio di riposare per sempre: «Le spoglie del sovrano – aggiunge Mallegni – sono risultate alquanto deteriorate non solo dal passare del tempo, ma dal trattamento che fu riservato al suo cadavere prima della sepoltura. Il corpo fu allontanato da Buonconvento su una lettiga sotto le sembianze camuffate di un ancora vivente per non far sapere della sua morte. Il fetore che emanava il cadavere, unito al lezzo della piaga che lo aveva tormentato per un anno, consigliò una sosta a Paganico dove, secondo le costumanze dell’epoca, più che altro germaniche, gli fu tagliata la testa. Il corpo fu poi bollito nell’acqua – e non nel vino come riportavano alcune fonti – e in seguito letteralmente spolpato e lo scheletro fu bruciato su di una pira. Abbiamo inoltre stabilito che il cranio è stato bollito a parte rispetto al resto del cadavere, dopo la decapitazione, perché la concentrazione dell’arsenico è più forte che nelle altre ossa; questo tipo di veleno si concentra infatti soprattutto nei capelli».
Grazie alle analisi antropologiche, il professor Mallegni ha potuto ricostruire il cranio e il calco di Enrico VII, le cui sembianze non si discostano da quelle riportate nelle fonti storiche: «L’imperatore era descritto come un uomo dal volto gradevole, con naso sottile e appuntito e dalla bocca ben formata, e la ricostruzione fisiognomica realizzata dallo scultore Gabriele Mallegni non se ne discosta. Le fonti parlano anche di un tic nervoso all’occhio sinistro: questo particolare, unito a un quasi certo bruxismo – il digrignamento involontario dei denti – fanno pensare a un uomo forse tormentato, sebbene le fonti ne parlino come un sovrano calmo e uso a parlare poco».
La ricerca ha poi svelato altri particolari su Enrico VII: il sovrano era un uomo alto (1.78 m), mentre le cronache italiane dell’epoca lo definivano di statura quasi media e snello, forse per dimagrimento dovuto alla malattia. Dallo studio antropologico dei resti inoltre, gli arti inferiori risultano assai più robusti dei superiori, caratteristica che prova che il sovrano andava a cavallo forse già da bambino.
Il professor Mallegni ha condotto le sue analisi con la collaborazione del Centro Ricerche e Servizi Ambientali (CRSA) di Ravenna, mentre per la parte storica si è avvalso del supporto di Maurizio Vaglini, direttore del Centro Interregionale per la Documentazione Bibliografica e Archivistica Biomedica dell’Arte Sanitaria di Roma.