L’allestimento registico de “ Il Sindaco del rione Sanità”, giunto al Quirino dopo una tournée, è conchiuso in una cornice che non si può manomettere: Antonio Barracano è morto, fin dall’apparire in scena, è morto il 10 settembre 1950, e su quella morte riflette, sbracato su una poltrona nella ribalta mentre un parlottio biascicato esala dalle sue labbra, una incomprensibile canzoncina infantile o la memoria confusa di versi, di frasi ascoltate, dette. Sullo sfondo seduti, pressoché immobili, quattordici personaggi pirandelliani aspettano di animarsi man mano che lo spettacolo si gonfia di parole e movimenti cinetici per indossare il personaggio assegnato loro, articolarlo nella battuta del copione con l’intento finale di portarlo ad agire in funzione di quella morte e di quella data che decreta la fine di tutto. E prima ancora il sipario nero con quel verso di Shakespeare :“La morte è povera cosa, ma chiude una ferita mortale”, che orienta già lo spettatore, sciorinandogli davanti le motivazione di ogni scelta di questa straordinaria regia di Sciaccaluga pensata per un attore genovese che riesce alchemicamente e ad incarnare l’anima napoletana, o meglio meridionale che Antonio Barracano, “Il Sindaco”, indossa.
In uno spazio aperto, un camerone con scrivania, a volte con funzione di tavolo operatori, pedane, tavolini, divani, lampade, carrelli, alla bisogna capaci di ospitare tutto l’armamentario dei ferri chirurgici ( scena di Guido Fiorato assai duttile ), vive Antonio Barracano, carismatico, azzimato con le sue cravatte di seta, ironico, prepotente e maschilista ( alla moglie, morsa alla spalla da uno dei mastini napoletani che don Antonio ama tenere in casa, e che non l’aveva riconosciuta di sera con il buio, non solo non permetterà di giustiziare il feroce animale, ma la rimprovera per non aver valutato la propria scorrettezza che ha costretto l’animale ad un comportamento aggressivo in tutela della casa e dei beni del padrone ).
Al centro del suo universo c’è un tessuto familiare allargato, non solo la devota moglie Armida, ma i figli amatissimi, i servi, il dottore( bravissimo Federico Vanni), che ha rinunziato alla professione al servizio di tutti per continuare a fare il medico personale e acconciare teste, estrarre pallottole, cucire squarci di fendenti. Perché questi sono i frequentatori di casa Barracano, gente rissosa, testarda, dura, ferita, padri ricchi commercianti irretiti dalla bella e disponibile straniera di turno, figli scacciati di casa, macilenti, affamati e disperati che s’armano convinti di dover risolvere le inadempienze paterne facendo fuori l’ostacolo alla conquista del patrimonio familiare; ragazze ingenue, toccate dall’amore, pronte a difendere l’”ommo”, e a lasciarsi trascinare in una maternità disagiata e precaria; ragazzi che per un nonnulla tirano fuori il coltello a serramanico pronti a infilzare l’amico, così, più per costume che per odio, salvo poi a cercare l’aiuto di chi può salvargli la vita; e uomini onesti scivolati nelle strettoie di un usuraio senza scrupoli che fa lievitare gli interessi fino a cifre stellari… E’ questo il mondo che consegna la chiave del potere a Barracano, questo il territorio, un intero quartiere, la Sanità, su cui sovrasta la sua giustizia, su cui si impone il senso del suo potere paternalistico e mafioso ad un tempo. Un potere che, ora che l’uomo ha raggiunto i 75 anni di vita, cerca sfumature e colori più maturi, vie più ortodosse e bonarie. E il padrino, capace di combattere con successo i malavitosi, di vincere persino sui cavilli della legge, per quel potere che cerca la via del dialogo cadrà come un eroe, anzi come la statua di un eroe.
Molto duttile la compagnia in scena, perfettamente inserita nel gioco delle interpretazioni cui regalare la propria umanità. Ispirati all’epoca i costumi di Zaira De Vincentiis.