Roma, 21 gennaio 2023 – La nostra poetessa titolare sul nostro giornale della rubrica Poesie, Gabriella Tomasasino, questa volta ha cambiato ruolo, intervistando per noi,
Carlo Giacobbi.
Carlo Giacobbi, avvocato, è nato a Rieti nel 1974, città dove risiede e lavora.
Sin dalla prima giovinezza, ha manifestato interesse per la poesia, la letteratura, il teatro, la musica ed il canto.
Primo classificato in diversi concorsi di poesia, nazionali ed internazionali.
Finalista al Premio Montano 2021.
Sue poesie sono comparse in antologie e blog letterari scrivendo recensioni su sillogi poetiche.
Ha tenuto corsi di introduzione alla scrittura poetica e incontri letterari con gli alunni delle scuole superiori.
Partecipa a reading di poesia.
Ha pubblicato, tra gli altri, Abitare il transito (Arcipelago Itaca, 2021) e da ultimo Vicende e chiarimenti (Puntoacapo, 2022).
Domanda scontata, cos’è per lei la poesia
La poesia è un genere letterario. Essa riguarda la tecnica di composizione delle parole in uno spazio ridotto. Ciò significa che l’arte poetica – a differenza di altre forme di scrittura – mira alla condensazione del senso, alla sua concentrazione. Si tratta, quindi, di dire tanto in poco, facendo uso di un linguaggio allusivo che rimanda a significati a volte plurimi, che vengono decrittati dal lettore secondo la sua specifica sensibilità ed esperienza del mondo. Non voglio dire che il componimento poetico debba essere un rebus o un indovinello. Personalmente – pur avendone fatto uso in passato – rifuggo da testi che fanno dell’oscurità fine a sé stessa la loro cifra stilistica. Il poeta non deve mai dimenticare – a mio modesto avviso – che la pronuncia poetica, per quanto possa fondarsi su scarti linguistici ed allontanarsi dunque dal linguaggio di grado zero, è comunque finalizzata a comunicare senso al potenziale lettore o auditore.
Secondo lei, insegnare a comporre poesia si può e a cosa potrebbe servire
Come dicevo sopra la poesia è anche tecnica letteraria, non è solo istinto o ispirazione. In quanto prodotto artistico essa necessita di abilità e perizia (tékhne) che possono essere acquisite in termini teorico-pratici. Ciò che può essere insegnato – nei corsi di scrittura – sono gli strumenti formali che hanno da sempre caratterizzato e tutt’ora caratterizzano – anche se spesso non ne siamo consapevoli – l’ars poetica: la metrica, le figure retoriche, le diverse forme chiuse fino al verso libero ed altri accorgimenti stilistici che sono volti ad impreziosire il componimento, a renderlo più attraente ed efficace. Poi, è evidente, occorrono talento e passione per la parola. Il migliore insegnamento – almeno così è per me – lo si trae dalla lettura attenta della poesia che ci ha preceduti e di quella contemporanea. È nel continuo confronto con gli altri poeti che si rinvengono temi e stili che si avvertono congeniali alla propria dizione e che inevitabilmente si assumono a modelli di riferimento.
Quando ha iniziato a leggere poesie e quando a scriverle.
Ho iniziato a leggere poesie intorno ai tredici o quattordici anni. C’erano dei libri in casa – mi ricordo di Shelley, Pascoli, ed altri – che mi chiamavano. Mi piaceva quella scrittura verticale con il bianco intorno. Sfogliavo, leggevo qualcosa, capivo poco. Ma poi ci tornavo e ripetevo l’operazione. Fino a che, un giorno – avrò avuto quattordici anni – dopo un’interrogazione a scuola andata non troppo bene – scrissi i primi timidi versi: <<Oggi ho perso la battaglia / non la guerra. / Mi ha colpito un colpo di mitraglia / e sono a terra>> (vi risparmio il seguito). Da lì in poi ho iniziato a leggere poeti famosi del Novecento e contemporanei, nonché a scrivere qualcosa che custodivo gelosamente in un diario segreto. I testi erano certo acerbi, elaborati sul calco di forme e stilemi che acquisivo leggendo. È stato il mio apprendistato, il mio laboratorio personale, un’esperienza quasi quotidiana. Poi crescendo, maturando, facendo esperienza della vita, temi e stili mi venivano dettati dal vissuto del momento. Annotavo dettagli, magari in treno per andare all’Università, per la strada, in un bar. Portavo sempre con me un taccuino ed una penna. Gli amici mi dicevano:<<ma stai sempre a scrive, ma che te scrivi!>>. Qualcosa di discreto e più autentico, inizio ad uscire fuori.
Ci descriva la sua poetica.
Ho scritto diverse raccolte, volutamente diverse per tematiche trattate e stili adottati. Se posso rinvenire una costante comune, un fil rouge che le lega, direi che associo ad atmosfere umbratili e crepuscolari un desiderio di pienezza, una fame d’amore che è sempre risorgente, mai appagata. Ecco, nella mia poetica – come del resto in quella di tanti altri – c’è questa tensione, l’appetizione ad un quid di totalizzante, di eternizzante, che inevitabilmente si scontra con i limiti della contingenza umana.
Nel suo quotidiano, che tipo di influenza ha.
Mi aiuta ad accorgermi dei particolari, delle piccole cose. L’influenza che la poesia ha nel mio quotidiano è legata a questa sorta di acutezza sensoriale che si sviluppa partendo dall’osservazione del mondo e dall’ascolto. Se vogliamo il fare poetico, è una pratica che rimanda all’umiltà del tacere affinchè la realtà entri in noi: affinché, cioè, se ne faccia esperienza e la si restituisca in versi dopo averla vissuta. Una poesia astratta, disancorata da ciò che viviamo è mero esercizio stilistico, serve a poco. C’è un’influenza anche terapeutica: scrivere fa stare meglio, aiuta a comprendersi, a sciogliere blocchi emotivi, ad esternare – in funzione liberatoria – quanto di più profondo ed oscuro ci abita.
Avvocato e poeta dove si incontrano.
Direi che si non si incontrano. Sia il poeta che l’avvocato scrivono. Ma sono forme di scrittura totalmente differenti per linguaggio e finalità. Il linguaggio dell’avvocato è tecnico e mira alla persuasione; quello del poeta è libero e si propone il fine di partecipare al lettore il proprio personale punto di vista sull’esistenza.
È superstizioso? Ha qualche oggetto o rito particolare quando compone?
No, nessuna superstizione, nessuna ritualità. Cerco di focalizzarmi sul reale, come detto, tacendo ed osservando.
Come mai si diletta a fare anche l’attore.
Sono stato attratto dalla recitazione sin da piccolo. Mi sembrava un mondo parallelo, uno spazio magico dove poter essere un io diverso da quello che ero. Mettermi nei panni di un altro-da-me, mi aiutava ad esprimermi e a capire gli altri. Anche il teatro, come la poesia, è una forma di espressione di se stessi, un’esperienza catartica, liberatoria. Poi, se ci pensiamo, anche nella pratica poetica è possibile questo sdoppiamento: l’io-lirico può essere declinato – ad esempio – in terza persona; e questo è un po’ – come nel teatro – essere altro da sé.
Le soddisfazioni più rappresentative che ha raccolto.
Ho conseguito diversi primi posti in concorsi nazionali ed internazionali. Non sto qui ad elencarli. Quello che mi interessava era confrontarmi con gli altri, vedere che effetto producevano i miei testi sulle giurie. La soddisfazione più grande ce l’ho quando qualcuno mi confessa di essersi “ritrovato” in qualche mio verso o che la mia poesia è stata fonte di meditazione sulla propria vita, cose del genere. Mi ha fatto molto piacere che il mio editore (Arcipelago Itaca) e Versante Ripido mi abbiano chiesto di entrare in redazione. Ho avuto richieste di interventi di critica letteraria anche da Macabor editore. Sono riconoscimenti importanti anche questi. Denotano un apprezzamento per quello che faccio.
Erich Fromm nell’Arte d’Amare afferma che l’uomo moderno può cadere prigioniero della routine e di non ricordarsi più di essere un individuo distinto, con l’occasione di vivere, il desiderio di amare e il timore del nulla. Lei cosa ne pensa.
È una domanda complessa. L’uomo moderno è certamente vittima d’un sistema sociale fondato sulla reiterazione di comportamenti – specie in ambito lavorativo – che disumanizzano. V’è un appiattimento culturale che conduce all’omologazione. Il potere ha tutto l’interesse a che ciò resti così e difatti ha sempre cercato di porre a tacere il dissenso espresso dai poeti. Ecco, la poesia è uno spazio per riappropriarsi di sé, per esprimere liberamente il proprio pensiero, per acquisire coscienza della propria individualità, la quale, seppure chiamata a relazionarsi, non deve mai perdere i propri caratteri distintivi. Nella nostra società, da un lato liquida, dall’altro massificata, il desiderio di amare resta spesso frustrato dall’assenza di relazioni autentiche. E questo senso di perdita, di incompiutezza, di solitudine, conduce al timore del nulla; non tanto al timore del nulla dopo l’esperienza terrena, quanto alla percezione della vanità della propria esistenza mentre la si vive. La poesia è tutt’altro che routine. Essa si alimenta delle novità esperienziali in cui – se si sa guardare – ci si imbatte ogni giorno, e che sono fonte di stupore, di gratitudine e quindi di senso.
Fino a che punto si può giocare con se stessi.
Se per giocare con se stessi intende non prendersi troppo sul serio, essere autoironici, allora non vedo controindicazioni. Ma se ci riferiamo al tradimento di sé, delle proprie inclinazioni, magari per compiacere chi ti vuole in un certo modo (che non risponde a quello che sei), è meglio lasciar stare. In quest’ultima accezione “giocare con se stessi” diventa frustrante, induce a percepirsi insignificanti, fuori luogo e sbagliati.
Cosa le fa paura e come l’affronta.
Mi fa paura non essere me stesso. Dover indossare una maschera, anche professionale, che non corrisponde a quello che sono, o comunque non pienamente. La poesia, lo studio della letteratura – materie a me più congeniali – mi hanno aiutato a “ritrovarmi”, a dare il là alle mie aspirazioni più profonde.
Quali sono gli autori che preferisce. Cosa legge.
Se parliamo di poesia italiana il mio riferimento è stato Mario Luzi. Ma ho letto un po’ tutto, spesso anche voracemente, disordinatamente. Mi piace molto anche la poesia straniera. Ho apprezzato molto Mark Strand, Christian Bobin, la Szymborska, Auden, Miłosz e tanti altri.
Quanto contano per lei le parole.
Contano molto. Le parole sono dotate di un’efficacia trasformativa su corpo e mente della quale spesso non ci rendiamo conto. La parola può guarire ma anche fare molto male. Sono strumenti tutt’altro che astratti o neutri. Ecco perché dovremmo imparare ad utilizzarle in modo che edifichino qualcosa. Siamo abituati ad un linguaggio aggressivo e denigratorio che altro non è se non l’espressione della guerra che ci portiamo dentro. La poesia può aiutarci a riflettere su questi temi.
L’Amicizia per lei.
È una forma d’amore davvero incondizionata. È molto rara. L’amico è uno che ti viene in aiuto anche quando vorrebbe fare altro; è uno col quale sei a tuo completo agio, col quale non ti vergogni di essere quello che sei. Non ci sono filtri, schermi, cliché: solo accettazione reciproca.
Ha una splendida figlia, quanto è difficile per lei starle accanto.
È difficile capire fino a che punto intervenire nella sua crescita. Da un lato c’è la sua libertà, dall’altro ci sono le preoccupazioni – credo legittime – di chi come me è chiamato ad educarla, a fornirle dei riferimenti valoriali, comportamentali, che inevitabilmente condizionano. La difficoltà sta nell’esserci e, allo stesso tempo, nell’accordare fiducia e nell’infondere coraggio.
Che tipo di padre è.
Né meglio né peggio – spero – di tanti altri. Quello che mi sta a cuore è che mia figlia sia se stessa, che si esprima (nella scuola, nei rapporti interpersonali, nel lavoro quando sarà più grande) seguendo la propria vocazione.
Cosa vorrebbe dire ai giovani.
Siate voi stessi. Fate quello che vi fa stare bene. Seguite le passioni anche quando non rendono. Non dovete compiacere nessuno. La peggiore sconfitta è quella di vivere una vita che altri hanno scelto per voi. È lì che si inizia a stare male, a vedere buio.
La ringrazio per la Sua disponibilità