Nuove verità sul “Caso Moro”

Iniziamo con un'intervista recentemente effettuata alla giornalista Maria Antonietta Calabrò, autrice, con Giuseppe Fioroni, dell'interessante libro "Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta" 

Roma, 31.10.2018 – Iniziamo con un’intervista recentemente effettuata alla giornalista Maria Antonietta Calabrò, autrice, con Giuseppe Fioroni, dell’interessante libro “Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta” edito da Lindau:

Sappiamo che il rapimento, la prigionia ed il delitto di Aldo Moro NON sono avvenuti come ci è stato raccontato in base ad una narrativa concordata tra terroristi e apparati dello Stato, allo scopo di “chiudere” gli anni di piombo e di far sopravvivere strutture di intelligence e personaggi pubblici (politici e giornalisti) che hanno giocato un ruolo nella storia. La ricostruzione dei fatti  è stata insomma il frutto di un compromesso volto a formulare una “verità accettabile”.. Tutto questo ha innescato un processo di rielaborazione, molto tortuoso ed ex post (durato oltre dieci anni, da quel tragico 1978 al 1990), su che cosa era veramente accaduto durante l’«Operazione Fritz», il nome in codice dell’«operazione Moro». Il 1990 non è una data casuale, visto che nel 1989 è caduto il muro di Berlino.

Quali verità sono emerse dalla nuova Commissione d’inchiesta Moro 2 presieduta da Giuseppe Fioroni?
Sono sconcertanti. Quattro anni di lavoro, migliaia di documenti desecretati degli archivi dei servizi segreti italiani, centinaia di nuove testimonianze, nuove prove della Polizia scientifica e dei RIS dei Carabinieri hanno rivelato molti nuovi e sorprendenti elementi.
Qualche esempio: Moro guardò negli occhi chi gli sparava, NON morì sul colpo; il suo carceriere trovò rifugio da latitante in una palazzina dello IOR, la banca vaticana, e nello stesso complesso con certezza era stata allestita la sua prigione almeno per i primi dieci giorni; l’omicidio ben difficilmente è potuto avvenire nel box di via Montalcini 8, così com’era nel 1978; almeno 2 terroristi della Rote Armee Fraktion potevano essere in via Fani; fu un imprenditore israeliano che fornì i 10 miliardi del riscatto consegnati a Paolo VI; le fazioni palestinesi giocarono un pesante ruolo nella trattativa. Durante il sequestro passarono alle BR documenti top secret della NATO; infine emerge uno scenario internazionale del delitto che i brigatisti hanno sempre negato.

Quale scenario internazionale?
…grazie alla capacità militare della Rote Armee Fraktion tedesca e alle complicità dei gruppi palestinesi più estremisti, quelli controllati dalla STASI, il servizio segreto della Germania Est…. nel libro c’è anche la prova che il rapimento Moro fu un’operazione di spionaggio, visto che transitarono alle BR e da esse all’Est documenti originali sui piani della struttura GLADIO, lo Stay Behind italiano.

Nel libro trattate anche del ruolo ambiguo di ambienti vaticani.
..Nel capitolo “In Excelsis”, si parla della scoperta della prima prigione di Moro, almeno all’inizio del sequestro. Per quanto questo possa sembrare incredibile, c’è una documentazione inoppugnabile che dimostra che la sua prima prigione è stata alla Balduina (un quartiere a nord della Capitale), all’interno di uno dei palazzi di proprietà dello IOR, la cosiddetta banca vaticana, ora al centro di un processo, iniziato il 9 maggio scorso, per una ipotesi di peculato al momento della vendita, avvenuta trent’anni dopo.
Ci sono inoltre le prove concrete che il carceriere di Moro, Prospero Gallinari, è tornato in questo stabile nell’autunno del 1978 dove si è rifugiato per diverse settimane in seguito alla scoperta del covo milanese di via Monte Nevoso, che lo costrinse ad abbandonare altri appartamenti delle Brigate Rosse di cui aveva la disponibilità. Un palazzo, quello dello IOR, considerato estremamente sicuro, quindi, anche per Gallinari. C’è da notare infine che l’ultimo latitante condannato per il sequestro Moro è Alessio Casimirri, figlio del numero due della Sala Stampa della Santa Sede per un trentennio sotto tre Pontefici: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI (fino al 1972). Casimirri non ha mai fatto un giorno di prigione, nonostante sia stato condannato in via definitiva a 6 ergastoli. E dai primi anni 80 è riparato in Nicaragua, dove è rimasto indisturbato, grazie alla protezione dei sandinisti legati all’attuale presidente Daniel Ortega, protagonista in questi giorni della violenta repressione nel suo Paese, che tanto preoccupa Papa Francesco e l’episcopato nicaraguense. A questo proposito, voglio aggiungere che Papa Bergoglio ha dato una nuova spinta alle nuove indagini della Commissione Moro facendo testimoniare nel 2015 l’allora Nunzio Apostolico Antonello Mennini, molto vicino a Moro e anche alla sua Famiglia. Perché, come scriviamo nel nostro libro, «Papa Francesco ritiene che l’emergere della verità su alcuni fatti importanti della storia italiana possa contribuire alle riforme vaticane».

Cosa impedisce di giungere alla verità dei fatti nel caso Moro?
Il fatto che per il Codice Penale italiano il reato di strage NON si prescrive e alcuni protagonisti sono ancora vivi.

Scritto ciò, cominciamo la rapida, per quanto possibile, analisi dell’interessante libro…Dove? Quando? Come è stato ucciso Aldo Moro? Chi lo ha ucciso? Quando è stato ucciso?

Una completa riscrittura della scena e delle modalità del delitto è necessaria oggi, dopo molte novità emerse grazie alle nuove tecnologie d’indagine scientifica che la Commissione ha affidato al RIS dei Carabinieri. Nuove analisi forensi riguardanti l’autovettura Renault 4 rossa sono state fatte alla ricerca di eventuali segni di impatto dei bossoli sulle superfici dell’abitacolo e il campionamento con la prova dello stub, cioè per la rilevazione dei residui da sparo, sul tettuccio. Ma soprattutto, il delitto così come ricostruito a quarant’anni dai fatti acquista i connotati di un assassinio feroce, veramente efferato. Con un lungo strazio dello statista che muore dopo una lenta agonia.

I brigatisti hanno sempre affermato che Moro morì sul colpo. Questo però non è assolutamente vero. Sul bavero sinistro della giacca di Moro il RIS (il Reparto di Investigazioni Scientifiche) dei Carabinieri ha trovato una “particolarità”, ha detto il Comandante, Colonnello Luigi Ripani  nella sua audizione del 30 settembre 2015: lì c’è tutt’oggi traccia di un rigurgito di saliva, che la vittima espettora ancora vivo. Secondo l’autopsia eseguita il 9 maggio 1978, è morto almeno quindici minuti dopo che gli hanno sparato. Ma il RIS, a seguito dei suoi ulteriori approfondimenti, è giunto alla conclusione che la morte è sopraggiunta sicuramente dopo un’agonia molto lenta. Soprattutto, Moro non è disteso nel cofano quando inizia ad essere colpito, perché- è un fatto certo- i colpi arrivano non dall’alto verso il basso, come sarebbe avvenuto in quel caso, ma al contrario dal basso verso l’alto. Tanto da far pensare che l’esecuzione possa addirittura essere cominciata quando lui era in piedi. Importanti, al riguardo, le attività tecniche del RIS che di fatto colmano un clamoroso vuoto di indagine: sono accertamenti che nessun inquirente aveva mai ritenuto di effettuare prima del maggio 2017. Sul luogo presunto del delitto, gli uomini del RIS hanno ripetuto gli spari, hanno fatto misurazioni, registrato rumori, scattato foto ed effettuato filmati video. È così accertato che l’auto nel cui bagagliaio i brigatisti avrebbero ucciso Moro, secondo il loro stesso racconto, lasciandone poche tracce di sangue, poteva solo con difficoltà entrare nel box di via Montalcini così come esso era nel 1978 (prima dei lavori di ampliamento e di rifacimento cui è stato sottoposto). La Renault rossa non poteva passarci con il portellone posteriore aperto. O meglio, per entrarci, doveva sporgere all’esterno di parecchio, e diventare visibile per qualunque condomino avesse avuto la necessità di uscire dal proprio palazzo usando la propria vettura (resterebbe comunque un rischio elevato, anche se l’orario rivelato dai brigatisti, le 6.30 del mattino, fosse corretto). Per non parlare, poi, del rumore che i colpi (anche quelli silenziati) produrrebbero, se sparati in una palazzina come quella in via Montalcini, nella periferia sud di Roma, che sarebbe stata scelta dai brigatisti per allestire la cella di Moro.

Andando avanti, leggiamo, come ha dichiarato l’ex brigatista Adriana Faranda, che il riscatto (un miliardo e trecento milioni), ottenuto dalle Br con il sequestro dell’armatore Pietro Costa (organizzato dalla colonna genovese all’inizio del 1977), aveva permesso all’organizzazione di acquistare o affittare diverse basi logistiche in tutt’ Italia. A Roma c’erano molti covi, otre a quello di via Montalcini. Sicuramente quello di via Gradoli 96, vera centrale operativa del sequestro Moro, dove alloggiarono Mario Moretti, Barbara Balzarani ma frequentato, come provato dai nuovi riscontri della Polizia Scientifica, anche dalla Faranda, oltre che da persone mai identificate, probabilmente stranieri, quasi certamente nord-europei. Ci sono testimonianze agli atti della Commissione Moro 2 secondo cui in più di un covo un lavoro di pannellatura aveva consentito di ricavare una parte nascosta, utile a ospitare un “doppio” covo pronto per trasferirvi Moro, nel caso la situazione – sotto la pressione delle forze dell’ordine – si fosse fatta critica. Nel covo di via Silvani, scoperto dai Carabinieri il 10 giugno 1980, venne ritrovata anche la pistola Walther calibro 9. Oggi sappiamo che era proprio la PPK usata per uccidere Moro. Il proiettile e il bossolo calibro 9 trovati tra i reperti della Renault 4 rossa sono stati oggetto di confronto con l’arma di via Silvani, nel 2016, da parte del RIS. Dagli accertamenti comparativi è risultata “una identità balistica” tra proiettile, bossolo e arma: quindi il proiettile calibro 9 è stato esploso proprio da quell’arma. Il covo di via Silvani, che fu individuato dai militari dell’Arma dopo le operazioni in Piemonte, scaturite dalla collaborazione di Patrizio Peci, e l’irruzione in via Fracchia a Genova (nel corso della quale morirono quattro brigatisti, tra cui Riccardo Dura), deve essere considerata la base logistica della colonna romana. L’appartamento di via Montalcini, attraverso un complesso processo testimoniale che si sviluppò per almeno tutti gli anni ’80 (il primo sopralluogo di Morucci e Faranda con i magistrati romani Rosario Priore e Ferdinando Imposimato avvenne il 17 giugno 1985). Il covo di via Montalcini divenne così una delle architravi del “perimetro” della “verità accettabile” e dicibile sul caso Moro prima della caduta del Muro di Berlino. Una “verità” che però ha lasciato aperti molti interrogativi, sui quali si è sviluppato il lavoro – che non è stato concluso a causa dell’interruzione anticipata della XVII legislatura – della Commissione Moro 2.

Ancora….Tutte e tre le auto usate dai brigatisti in via Fani sono state abbandonate in via Licinio Clavo, alla Balduina. Ma – come è stato confermato solo nei mesi scorsi, al di là di ogni ragionevole dubbio – ciò è avvenuto nell’arco di tre giorni diversi. Nella versione brigatista condensata nel cosiddetto Memoriale Morucci si afferma invece: “Tutte e tre le auto sono state parcheggiate in via Licinio Calvo la stessa mattina del 16 marzo, nello spazio di tempo di circa venti minuti dopo l’azione di via Fani (e cioè tra le 9.10 e le 9.30). Via Licinio Calvo assume quindi un significato fondamentale per la ricostruzione della fase del sequestro di Aldo Moro mediatamente successiva all’agguato di via Fani. Già la prima Commissione parlamentare d’inchiesta che ha lavorato nell’arco dell’VIII legislatura e istituita con la legge del 23 novembre 1979, nel descrivere le modalità dell’allontanamento degli attentatori dalla scena del crimine, aveva ritenuto “presumibile che essi abbiano […] utilizzato qualche base di appoggio nelle vicinanze di via Licinio Calvo per trasbordare il prigioniero, abbandonando le auto dell’agguato.” L’interesse per tale ipotesi si è conservato inalterato per quarant’anni, costituendo uno snodo fondamentale in grado di contribuire in maniera rilevante alla compiuta ricostruzione della vicenda.

Tra i documenti consegnati all’Archivio centrale dello Stato in seguito all’importantissima (e finalmente realizzata!! nda) “Direttiva Renzi” del 2014, che ha continuato nell’opera di desecretazione di documenti di intelligence utili per ricostruire gli anni delle stragi e del terrorismo, è molto interessante citarne uno che reca l’intestazione “Ufficio R, reparto D, 1626 segreto”. È datato 17 febbraio 1978 e proviene da Beirut, “fonte 2000″….Non c’è nessuna firma, ma ad inviarlo è il Capocentro a Beirut del Sismi, Colonnello Stefano Giovannone, il “Lawrance d’Arabia” italiano, come era stato soprannominato, e ne rappresentava in campo in qualche modo “la politica mediorientale”. Giovannone fu infatti l’artefice del cosiddetto “Lodo Moro”, il patto segreto stretto tra la nostra intelligence militare e i servizi segreti palestinesi per tenere indenne l’Italia da attacchi sul suo territorio. Fu attraverso i suoi contatti a Beirut che Giovannone apprese, ben un mese prima dell’agguato di via Fani, della possibilità di una “operazione terroristica” in Italia definita “di notevole portata”. Sicuramente si tratta di un documento di cui nella sua integralità la Magistratura fu tenuta all’oscuro, mai acquisito dalla Procura di Roma. Il telex dimostra – al di là di ogni ragionevole dubbio, che si era in presenza di un quadro di elevata allerta, i cui rischi non erano adeguatamente valutati e i cui segnali furono probabilmente percepiti dallo stesso Moro. È infatti molto fondata l’ipotesi che Moro sia stato messo al corrente del messaggio da Beirut (anche in virtù dei rapporti che continuava a intrattenere con Giovannone), e di altri allarmi giunti nelle ultime ore e che ciò spieghi il colloquio con il Capo della Polizia, Giuseppe Parlato, che avvenne nello studio dello statista DC in via Savoia, la sera tardi del 15 marzo 1978. Il telex da Beirut metteva in luce l’esistenza di un accordo tra gruppi terroristici europei per compiere l’attentato. Quella pista non solo non servì a sventare l’agguato di via Fani, ma neppure a indagare sulle responsabilità del sequestro dopo un tragico epilogo. Comunque, ad evitare la tragedia sarebbe probabilmente bastata una macchina blindata per Moro e la sua scorta.

Continuando….leggiamo…che con un decreto del Presidente del Consiglio del 30 agosto 1978, il Generale Dalla Chiesa era stato posto a disposizione del Ministro dell’interno con funzioni di coordinamento e di cooperazione fra le Forze di Polizia e gli Agenti dei servizi informativi, ai fini della lotta al terrorismo. Il colonnello Michele Riccio, il 16 novembre 2017, ha testimoniato davanti alla Commissione Moro 2 che alcuni suoi uomini avevano partecipato anche all’operazione di via Monte Nevoso il 1° ottobre 1978 a Milano. Al rientro, riferirono al loro Comandante che addirittura avevano “fuso” la fotocopiatrice della Sezione anticrimine di Milano per fare copia delle carte di Moro, ritrovate in quel covo. Con certezza da via Monte Nevoso, nel 1978, “scomparvero” carte “sensibili”. Fu proprio il generale Dalla Chiesa, relazionando sull’operazione del 1978 di via Monte Nevoso a sostenere di essersi molto allarmato per la presenza in quel covo Br di notizie sulla NATO contenute in un documento delle Brigate Rosse di 17 pagine, come dimostra un documento declassificato nel 2013 e acquisito dalla Commissione Moro 2. Una cosa è certa. Dal momento in cui venne scoperto il covo milanese di via Monte Nevoso nel 1978, e Dalla Chiesa seppe per certo che i brigatisti avevano materiale sulla NATO, divenne una priorità per lo Stato recuperare quanto più possibile tutte le carte di Moro. Per decisione del Generale Dalla Chiesa, alla fine del 1978, il Maresciallo della Polizia Penitenziaria Angelo Incandela fu nominato Comandante del Carcere di massima sicurezza di Fossano (Cuneo), dove erano detenuti numerosi personaggi di rilievo, sia appartenenti alle Brigate Rosse e ad altri gruppi armati, sia alla criminalità organizzata. A lui furono affidati dal Generale compiti informativi e di monitoraggio all’interno del supercarcere. L’obiettivo, reso possibile dalle notevoli capacità del sottufficiale, era quello di raccogliere informazioni e documenti, prevenire progetti di evasione e intercettare l’eventuale disponibilità a collaborare di qualche detenuto. Incandela, tra l’altro, ebbe un ruolo determinante nel convincere Patrizio Peci a pentirsi. Un testimone prezioso, Incandela, che è stato sentito dal presidente della Commissione Moro 2 Giuseppe Fioroni, e dal consulente, il magistrato Guido Salvini, il 7 marzo 2016, nei locali della questura di Torino, ormai malato terminale e poco prima della sua morte (avvenuta il 15 giugno 2016). il Maresciallo ha voluto concludere la sua vita indicando fatti finora sconosciuti per aiutare a ricostruire la verità. Una testimonianza, insomma, resa in limite mortis. Il testimone ha poi rievocato in modo dettagliato un importante episodio di recupero di documenti attinenti al sequestro Moro all’interno del carcere…    Le nuove indagini parlamentari hanno consentito anche di identificare una fonte che rivelò a un sottufficiale di Polizia il rifugio di Morucci e Faranda (BR dissidenti) in Viale Giulio Cesare a Roma, nell’abitazione di Giuliana Conforto (nella quale fu rinvenuta la nota mitraglietta Skorpion). Essa si identifica con i gestori di un autosalone nella zona portuense (AutoCia s.r.l.), presso la quale Adriana Faranda acquistò due auto. Si colloca in questo ambito la vicenda di Giorgio Conforto, il padre di Giuliana, assurto alle cronache come il più importante agente del KGB in Italia dopo la pubblicazione del dossier Mitrokhin, alla fine degli anni ’90. Come è noto, nel corso di un’audizione presso la commissione Mitrokhin del 1° marzo 2004, Cossiga affermò: “Fu lui [Conforto] (questo lo so per certo) che, per difendere il Partito Comunista Italiano da accuse di collusione con le Brigate Rosse, denunziò, all’allora capo della Squadra Mobile Masone, Faranda e Morucci, che abitavano nella casa della figlia. L’uomo che fece arrestare Faranda e Morucci è quello che qui è considerato il più grande Agente sovietico, Conforto. Fece ciò perchè la figlia non sapeva nulla. Sapeva soltanto che questi erano elementi di sinistra. La figlia era un’extra-parlamentare non comunista. Quando lui capì chi erano le persone che erano in casa della figlia contattò Masone”. Le affermazioni di Cossiga non hanno mai potuto essere verificate in un confronto con Conforto e Masone, che a quella data erano ormai deceduti.

Concludiamo con le parole del Prof. Giuseppe Fioroni, già eminente Parlamentare e Ministro della Repubblica, ed ora Docente Universitario di Medicina , che condividiamo pienamente in relazione allo stato politico attuale….”Le conseguenze le vediamo oggi, il guado in mezzo al quale ci troviamo è anche il risultato della mancata rigenerazione della Democrazia che Moro aveva immaginato e a cui stava lavorando. Dopo la sua morte ci si è tornati ad arroccare ciascuno nelle rispettive paure. A quella che si è soliti definire Seconda Repubblica è mancato proprio un autentico progetto politico di allargamento della Democrazia. Ci si è illusi che bastasse cambiare la Legge elettorale…..”… magari rimaneggiando anche il pilastro della Carta Costituzionale…..ci permettiamo di aggiungere noi..!

Se di interesse, altro mio articolo “Commissione Parlamentare sul caso Moro, le parole del Magistrato Pietro Calogero” del 13 novembre 2015

 

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