ROMA – “Chi non impara dalla propria storia è costretto a riviverla.” Questa scritta, tanto dura quanto significativa, venne trovata in un campo di concentramento alla fine della seconda guerra mondiale, ed è la frase con cui la mia professoressa di storia e filosofia diede inizio al nostro cammino insieme ai tempi del liceo. Non si può studiare la storia solo imparando a pappardella nomi e date, così come non si possono chiudere gli occhi e far finta che quello che è successo nel corso dei secoli sia cosa morta e lontana da quello che succede oggi. La storia va capita e dalla storia bisogna imparare, e questo è il più sacro dei dogmi che il nostro pensare laico ci impone.
E’ proprio guardando la storia e guardando quello che accade oggi che non riesco a non pensare alla Rivoluzione Francese. Oggi il clima di instabilità, di disservizio e le continue truffe ai cittadini da parte della classe politica hanno superato il livello della sopportazione, creando un malcontento generale che ripercorre, seppur ancora in maniera marginale, le motivazioni che portarono all’esplodere della più grande rivoluzione che la storia ricorda.
Così tra mobilitazioni di piazza, urla di personaggi inediti nella politica nostrana, scandali e governi che perdono la fiducia con la facilità con cui si è soliti perdere la strada nel corso di una visita in una città sconosciuta, l’unica incontrovertibile realtà è che di tutto questo ci saremmo dovuti interessare prima.
In Francia il movimento che portò alla Rivoluzione ed al successo della stessa fu un movimento ben precedente chiamato “Illuminismo”, nato nei salotti dei Caffè parigini da persone colte e da studiosi di democrazia, uomini che tentarono con la luce della ragione di dissimulare quello che una cupa monarchia stava oscurando. La Rivoluzione partì dal basso ma fu letteralmente guidata da persone che avevano passato la loro vita a studiare una soluzione per la crisi che colpiva quel determinato momento storico. Quella soluzione fu identificata in un sistema democratico di governo, guidata da princìpi che riconoscevano i diritti fondamentali dell’uomo prima di qualsiasi altra cosa: emblematica, al riguardo, la frase di Voltaire, che sottolineava come per quanto “odio quel che dici, difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Questo, guardando recenti consultazioni politiche tra parti popolari e futuri premier, è passato oggi decisamente in secondo piano.
In Italia, rispetto alla Francia pre-Rivoluzione, le cose sono ben diverse. Il movimento di rigetto che si va auspicando e tentando di far decollare nasce esclusivamente dal malcontento, guidato da politicanti d’occasione che si esprimono ad urla e con modi dittatoriali, una rabbia cieca che rischia di portare, se non correttamente guidata, solo ad una situazione di caos e mai a risultati lodevoli e duraturi. Tutto questo, mi pare, è lontano anni luce da quella che noi italiani abbiamo scelto come forma di governo del nostro Stato: una DEMOCRAZIA, quella stessa che votammo nell’immediato Dopoguerra, provati e decimati da una catastrofe mondiale dovuta proprio all’imposizione di un potere dittatoriale e dispotico, incapace di prendere decisioni illuminate ma prima di tutto di ASCOLTARE. Niente ideali, niente spiriti eccezionali, niente voglia di costruire un futuro migliore: alla base della protesta si vede solo rabbia, e questo è la cosa forse più preoccupante.
Subire in maniera incondizionata o semplicemente aspettare che le cose si sistemino non è certamente un’opzione per dei buoni cittadini e per delle persone coscienziose, ma nemmeno tapparsi le orecchie ed urlare in piazza il proprio malcontento può servire a risolvere con quella che mi permetterei di definire una “giusta progettualità”. Altrimenti possiamo ricacciare le ghigliottine insanguinate e dichiarare la guerra civile, incrociando scaramanticamente le dita per quel che verrà dopo. Questa non mi pare (non è), sinceramente, la soluzione migliore da augurare al nostro Paese.