Ricordando Capaci…
Ricordando la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone nel ventennale di quella tragedia, cui si aggiunge l’uccisione di Paolo Borsellino, a cinquattasette giorni di distanza; poi, avvicinandosi a fine estate anche il trentesimo anniversario dell’uccisione di Pio Latorre e Carlo Alberto dalla Chiesa, si riaccende il ricordo di tanti e tanti altri Servitori della Legge sacrificatisi sul Fronte del Dovere, per cui prende la rabbia più forte, sì, proprio sino alle lacrime, nel rivisitare le inerzie e le corruzioni molteplici di uno Stato che non ha saputo, nel tempo, difendere tanti suoi Figli, anzi li ha già uccisi una prima volta lasciandoli soli e consentendo per taluni, come con Falcone, che si verificasse la nauseabonda e vigliacca macchina del sospetto e della illazione, mentre nascondeva a vari livelli di responsabilità complicità indicibili con la mafia e stercorari apparati occulti che avrebbe dovuto invece combattere ad oltranza!
La lotta alla Mafia è storia antica, in Italia. Pensare che la nascita della prima Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso (altre seguiranno nel tempo, sino ai nostri giorni) è del 12 dicembre 1962 ed ha un iter formativo tormentato (attraverserà tre Legislature per un totale di tredici anni). In sede parlamentare se ne discusse dal 1948, dopo la strage di Portella della Ginestra dell’anno precedente, con una proposta di Legge. L’ipotesi fu respinta dalla maggioranza, che giudicava la mafia un fenomeno locale, circoscritto nel “clima e nell’ambiente siciliano”. E la stessa strategia si ebbe nel 1954 e nel 1956 quando, a seguito di forti richieste di Parlamentari, il Governo rispose che “..la mafia non esiste più, si è sciolta nella criminalità comune..”. La proposta di legge riapparve il 26 aprile 1961, dopo un voto finalmente unanime del Senato che ne ravvisava l’urgenza. La Commissione iniziò ad elaborare una relazione con proposte che, intanto, portava nel 1965 alla prima Legge Antimafia, di grande efficacia, che sarà nel tempo base per tutte le normative specifiche. Poi, metteva in luce le illecite attività del Sindaco di Palermo Salvo Lima e di Vito Giancimino, con note biografiche su Luciano Liggio e altri boss, sui famosi cugini Salvo, ben ammanicati con capibastone e gli alti piani della politica nazionale, i quali,con la Satris, l’Agenzia regionale di riscossione delle tasse, imponevano un balzello sino al 10%, mentre nel resto della Penisola era del 3,5%. Un vero e proprio sistema feudale. Si segnalavano, poi, le imprese dei famosi grandi imprenditori dell’edilizia di Catania, i cosiddetti Cavalieri del Lavoro, i Salvo, i Rendo e i Costanzo, che avevano iniziato ad operare a Palermo, monopolizzando tutti gli appalti e di più, a dimostrazione della saldatura tra mafia palermitana e quella della città etnea. Chi li intralciava o indagava, la pagava cara, come accadde al giornalista Pippo Fava. Nella citata relazione, per la prima volta, si evidenziava una realtà sconcertante: a Palermo, città emblematica e ricca a dismisura, dal 1952 al ’72 le banche erano cresciute del 586 per cento mentre in Italia dell’86; le società per azioni in Città aumentarono del 202 per cento mentre nel resto d’Italia del 30. Per ricchezze la Sicilia, e Palermo in particolare, rappresentavano un vero e proprio “Eldorado”. Ma veniamo a tempi più rccenti, quelli della nostra storia, che è quella della neutralizzazione morale e fisica di integerrimi e coraggiosi Servitori dello Stato. Si comincia il 25 settembre 1979, quando gli equilibri all’interno di Cosa Nostra sono ovviamente mutati, con l’uccisione del Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo Cesare Terranova, unitamente all’Agente di PS Lenin Mancuso, proprio nel giorno del suo insediamento nell’alta carica. Preoccupava i Corleonesi il rientro in scena del Magistrato che aveva fatto processare Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Intanto, il coraggiosissimo Parlamentare siciliano, Pio La Torre, proprio in quei giorni, firmava una proposta di Legge antimafia (che “more italico” verrà approvata dopo la Sua morte), che qualificava il reato di associazione mafiosa, sulla base del principio che il solo fatto di essere mafioso era reato; imponeva il controllo sui patrimoni giungendo sino alla confisca dei beni; aboliva il segreto bancario. La guerra era duplice in Sicilia, la prima, che può essere definito il “golpe” dei Corleonesi, era la resa dei conti all’interno di Cosa Nostra, iniziata con l’uccisione di Stefano Bontade, e diffusa in tutta la Sicilia, con estensione anche ai cugini Gambino, Di Maggio e Inzerillo, insediatisi da tempo nell’oltre Atlantico. La seconda guerra, invece, era fuori dall’organizzazione e colpiva quanti nei vari settori la contrastavano. E tutto questo con l’inerzia della Politica locale e nazionale e dei Palazzi romani. Nel gennaio 1979 veniva ucciso il giornalista Mario Francese, cui seguiva il Segretario provinciale DC Michele Reina, il Capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano. A settembre era la volta del Procuratore della Repubblica Cesare Terranova, che sapeva tutto della mafia di Corleone e per primo intuì la presa di possesso dei Corleonesi. Il 1980 si inaugurò con l’omicidio del Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, cui seguì, a maggio, quello del valoroso Capitano Emanuele Basile, Comandante della Compagnia CC. di Monreale (evento che tanto sconvolse Paolo Borsellino, per rapporti professionali e di amicizia) e, ad agosto, l’assassinio del Procuratore Capo della Repubblica, Gaetano Costa. Due mesi prima di essere ucciso, l’On.Pio La Torre, molto allarmato, chiese al Presidente del Consiglio Spadolini, persona dabbene, di considerare la Mafia problema nazionale e, nella circostanza, consegnò un dossier sulle strategie di contrasto. Chiese anche di inviare il Generale dalla Chiesa, da Lui ben conosciuto e stimato negli anni precedenti, in Sicilia, progetto che si concretizzò appena un mese dopo con la nomina dell’alto Ufficiale a Prefetto di Palermo. Il 30 aprile, quindi, moriva Pio La Torre. Intorno alla sua autovettura, tra gli altri investigatori subito accorsi, c’erano quattro personaggi noti a Palermo: il Capo dell’Ufficio Istruzione, Rocco Chinnici, i Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il Commissario Ninni Cassarà, che purtroppo avranno stessa amara sorte. Pensare che era presente ai funerali anche dalla Chiesa, appena insediatosi come Prefetto di Palermo, che alla domanda dei giornalisti del perché dell’assassinio di La Torre, rispose ermetico: “Per tutta un vita!”. Anche il grande Generale-Prefetto cadrà sotto i colpi dei killer dei famigerati Corleonesi il 2 settembre successivo, ed anche per Lui si potrà dire, con le Sue stesse parole: “Per tutta una vita!”; sì, proprio per tutta una Vita di coraggio e dedizione allo Stato! Questa la tragedia nazionale delle morti annunciate e non impedite, la rassegnazione per una criminalità di coppole e colletti bianchi che ordivano strategie terroristiche in barba alla reazione dei cittadini onesti che in questa Italia continuano a contare come il due di briscole. Questa la Politica, sorda e avida, che può essere definita del doppio binario: la mattina in abito scuro ai funerali di Stato e la sera a trescare con Cupole nere di malaffare schifoso e verminoso. La triste storia delle esecuzioni continuò imperterrita, come forse non tutti ricordano. A pochi mesi dall’inizio del processo contro la Cupola mafiosa istruito da Giovanni Falcone, vennero uccisi i Commissari di Polizia Ninni Cassarà e Giuseppe Montana. Il primo, aveva la colpa di aver redatto il Rapporto Giudiziario firmato congiuntamente al bravo Capitano dei CC. Angiolo Pellegrini, dell’Anticrimine di Palermo: “Michele Greco + 61”, subito visionato e approvato dal Prefetto dalla Chiesa all’atto del suo arrivo in Sicilia; rapporto su quel “Papa” della mafia, Michele Greco, che verrà arrestato il 26 febbraio 1986 dal coraggioso Colonnello Giuseppe De Gregorio e dai suoi Carabinieri del Comando Palermo 2. A seguire, lo scandalo dell’assoluzione, il 13 marzo 1983, degli assassini del Capitano Basile, cui fece seguito, il 13 giugno, la morte oltremodo emblematica, attesa la tempistica da rituale tanto cara alla Mafia, del Suo successore nella stessa Compagnia di Monreale, il Capitano Mario D’Aleo, che aveva continuato nelle medesime indagini del Collega. Anche lì, intorno al suo giovane corpo esanime (aveva nemmeno trent’ anni), i Magistrati Rocco Chinnici e Paolo Borsellino; anch’Essi vivi ancora per poco. Il 29 luglio, infatti, fu la volta di Chinnici, ucciso con auto bomba. La colpa, si ritenne, è che volesse indagare i cugini Salvo, i noti esattori ultraprotetti e ultrapotenti. Continuando, nel 1988, il 25 settembre, fu assassinato il Presidente della Corte di Appello Antonino Saetta, ucciso con il figlio Stefano, responsabile, secondo le logiche mafiose, di aver esemplarmente condannato i mafiosi che in primo grado erano stati scandalosamente assolti per la morte del Capitano Basile. E ciò avvenne appena nove giorni dopo il deposito della citata sentenza di condanna! Seguendo questa cronaca di morte, il 4 aprile 1992, cadde in un agguato il Maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, ottimo conoscitore della mafia dell’ agrigentino e valido collaboratore del Procuratore Borsellino. Si giunse, così, alle stragi di Capaci e via D’Amelio, sulle quali nulla si può aggiungere, tranne che sentita esecrazione, tanto sono note agli Italiani che hanno perpetuo ammirato ricordo per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Quindi, ora, che fare? Oltre al ricordo commosso e direi rammaricato per questi veri e propri Eroi della Patria, in primis va indirizzata coralmente la più forte richiesta alla Politica, quella con la “P” maiuscola, di collocare ai primi posti dell’attuale grave contingenza nazionale la lotta alle Mafie, non con chiacchiere di facciata come quando si strombazzavano gli elenchi di latitanti catturati con fatica dalle più che eccellenti Forze del’Ordine d’intesa con una Magistratura Antimafia di altissimo livello, e questo perché la Politica nulla deve scippare ad altri, ma deve fare il proprio dovere con coraggio ed assunzione di responsabilità, cioè legiferando per norme adeguate. E questo, in particolare, va fatto per la corruzione (soprattutto ora che è stata finalmente ratificata la convenzione di Strasburgo dopo quattordici anni, in cui si sono susseguiti ben tre Governi di centrosinistra e due di centrodestra!), perché corruzione e mafia sono due facce della stessa medaglia; per il reato di voto di scambio (art.416 ter C.P.), che preveda non solo la dazione di denaro sonante per la configurazione dell’illecito, ma anche di appalti e altre utilità; ripristinando il reato di falso in bilancio e rendendo punibile quello di frode fiscale, ormai prescritto a priori; rinvigorendo, poi, i dispositivi legislativi contro le ecomafie, visto che la maggior parte dei reati ambientali sono di natura contravvenzionale, quindi agevolmente prescrivibili; aumentando i termini per i procedimenti relativi al sequestro dei beni, improvvidamente e inspiegabilmente ridotti dal tanto decantato nuovo Codice Antimafia dell’agosto dell’anno scorso, per consentire così agevolmente l’obiettivo della confisca; modificando urgentemente la Legge Cirielli del 2005, che favorisce l’auspicata (per i delinquenti) prescrizione del reato. Poi, ancora, la Politica deve sapere estromettere gli elememti gravati da reati anche di tipo mafioso dal suo contesto, e tutto questo “senza se e senza ma”, ben ricordando che il Paese vive oggi una crisi economica senza precedenti, in cui è stato dimostrato che la criminalità, in possesso di enorme liquidità di danaro, si va ad impossessare di aziende in difficoltà, praticando l’usura a tassi stratosferici e strozzando, così, l’economia mai stata così fragile. Un Paese, il nostro, con fortissime tensioni sociali e scosso anche dal terrorismo, ragione per cui ci si deve attivare subito, una volte per tutte, anche per far sì che il sacrificio dei tanti benemeriti Servitori dello Stato, prima ricordati, non sia stato vano!