Roma, 19 marzo 2019 – Il fatto che le ragazze del rugby italiano domenica a Padova abbiano travolto 31-12 le “Pollastre” (femminile di Galletti!?) di Francia ha un valore assai meno folkloristico di quanto possa apparire a prima vista,specie se rapportato alla sconfitta per 27-14 subita dai colleghi maschi da parte della Francia.
Le fanciulle si sono aggiudicate la seconda posizione assoluta nel prestigioso torneo.
I giovanotti si sono guadagnati il beffardo Cucchiaio di Legno accomunandolo con la ventiduesima sconfitta consecutiva nel Trofeo delle Sei Nazioni.
Il commentatore non sa a che santo votarsi per offrire una interpretazione non troppo catastrofica di queste vicende.
Insomma, nello sport che più virile non si può, trionfa la personalità “eroica” della donna italiana: femmina , ma indomita e belluina, capace di sacrificarsi per il bene comune senza mai perdere di vista la realtà, la concretezza e gli interessi del gruppo.
Senza edonismi, vanità e narcisismi.
Dopo aver soccorso lo sport italiano al maschile in tante discipline sportive, oggi la donna italiana è in grado di trainare anche il rugby.
Non c’è niente di folcloristico!
Mettiamo da parte considerazioni ovvie che riguardino, per esempio, come abbiano le ragazze tranquillamente superato la paura di farsi male o di perdere qualcosa esteticamente. Sono discorsi superati, ormai dai fatti.
Ritorniamo a questo week end.
Allo Stadio Olimpico di Roma, sabato era presente una buona frotta di Campioni del passato che hanno fatto storia. Tutti scioccati di come gli azzurri avessero perso da
una Francia dominata per 70 minuti su ottanta.
Fra i più avviliti ed avvelenati erano il pilone Ambrogio Bona, il Flanker bresciano Salvatore “Nembo” Bonetti,; l’ala aquilana Serafino Ghizzoni assieme all’ala trevigiana Manrico Marchetto. Gente che ha appeso le scarpe al chiodo da oltre 30 anni.
Giocatori che per una generazione ha compiuto imprese memorabili senza mai guadagnare una lira. Sacrificando al Dio rugby interessi personali, carriere, famiglie magari.
Osservandoli, ricordando il loro entusiasmo purissimo, i sacrifici per conciliare le loro responsabilità verso la maglia azzurra con la vita di tutti i giorni, è scaturito facile il paragone con le donne rugbiste attuali, ai loro tempi inesistenti.
Dilettanti erano i rugbisti italiani fino al 1995. Dilettanti sono le ragazze italiane. Le uniche giocatrici professioniste sono le inglesi che, guarda caso, sono le vincitrici del Sei Nazioni. Ma l’Italia è stata molto vicina all’impresa di batterle. Si è arresa nel confronto diretto solo per la superiore condizione fisica di avversarie che nella vita hanno solo l’impegno di allenarsi mentre le dilettanti italiane, come la capitana Manuela Furlan, sono o operaia addetta al caricamento dei treni con il muletto oppure ingegnere come Michela Sillari; oppure cameriere di bar o ristoranti e via dicendo.
Il parallelo fra la vita e la dimensione dilettantistica delle rugbiste italiane, rapportate alla dimensione professionistica dei loro attuali corrispondenti al maschile, conduce necessariamente alla domanda e risposta del perché il rugby rosa italiano funzione meglio di quello azzurro.
Gli azzurri odierni sono il prodotto dei Centri di Formazione federali Under 16, Under 18 e di Accademie Federali Under 19 (Tirrenia e Parma). Qui i migliori talenti selezionati per fisico e qualità si preparano all’Alto Livello. Il passo successivo è l’ingresso nelle due Franchigie Federali (i Superclub di Treviso-Benetton e Parma-Zebre) che partecipano a due Campionati del massimo livello tecnico-agonistico mondiale: il Guinness Pro 14 (dove la Benetton è seconda) che include i massimi club di Irlanda, Galles, Scozia e Sud Africa; e all’Heineken Cup, l’Eurocoppa che annoverà anche il meglio dl rugby Inglese e Francese.
Insomma un percorso formativo perfetto che l’Italia ha affrontato con grande serietà ed investimenti.
I risultati sono sotto, l’occhio di tutti, anche dei veterani azzurri all’Olimpico ! Il rugby italiano è in grado di misurarsi alla pari con ogni avversario nel Sei Nazioni. Contro la Francia le cifre parlano in termini assolutamente favorevoli agli azzurri per possesso, territorio, mischie, touche e placcaggi etc.
Però, alla fine realizziamo poco in proporzione a tale parità o superiorità. Ci manca sempre qualcosa. Cosa?
I veterani indicano il nocciolo del problema.
Manca la Passione! Quella che motivava (e motiva) i dilettanti in tutti gli sport: fare qualcosa con l’entusiasmo e la voglia dettata dall’amore, dalla passione. Non come lavoro ben retribuito. Per interesse non ci si immola. Per passione sì!
Gli azzurri di Conor O’Shea, ormai sono capaci di impossessarsi con l’ovale e gestirlo fino a 20 fasi successive su un arco di un paio di minuti. Ma poi, come è successo con la Francia, l’avversario primo o poi riesce a metterci lo zampino. Un compitino svolto molto bene, ma senza il lieto fine.
Quello si raggiunge nel rugby (e non solo) quando la passione sublima lo sforzo. Quando, insomma, si conquista il metro fatale, il centimetro, a testa bassa con il volto proteso al contatto ruvido con l’avversario e non poggiandogli la spalla o la schiena.
Atteggiamento mentale che nessuna Accademia può apportare. O lo l’hai dentro o non lo hai!
Non si tratta di merce rara. L’ottimo CT delle ragazze italiane Andrea Di Giandomenico le ha trovate senza l’ausilio delle Accademie.
Queste vanno bene, anzi benissimo e le utilizzano tutti i paesi all’avanguardia. Ma poi alla resa dei conti ciò di cui si deve tenere conto è il carattere che va oltre la tecnica e il fisico e che risulta sempre decisivo. Le azzurre ne sono la massima dimostrazione. Così come lo sono gli All Blacks neozelandesi e gli irlandesi: per carattere sempre dilettanti non imborghesiti. Ed anche i francesi di sabato scorso che per 70 minuti hanno placcato e difeso tutto quello che si poteva e doveva.
Il rugby italiano ha adottato da anni lo slogan: Rugby Passione Italiana.
Nel prossimo futuro questo assunto non sia solo prerogativa delle azzurre.
O’Shea rallenti la sua enfasi tecnico- tattica per dedicarsi maggiormente agli aspetti caratteriali.