Roma, 01 ottobre 2021 – Un team internazionale guidato da scienziate e scienziati dell’Università Ca’ Foscari Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche ha letto nei composti chimici depositati nel ghiaccio l’andamento degli incendi di cinquemila anni.
Per la prima volta, grazie all’analisi di una carota di ghiaccio prelevata nella costa est della Groenlandia, a Renland, è stata ricostruita la storia degli incendi che hanno interessato le foreste islandesi negli ultimi 5mila anni.
La scoperta è di un’équipe internazionale guidata dall’Università Ca’ Foscari Venezia e dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), che ha pubblicato i risultati sulla rivista Climate of the Past, aggiungendo un tassello fondamentale alla comprensione dei legami tra incendi, clima e azione dell’uomo.
Il ghiaccio porta infatti impressa l’impronta della storia climatica e ambientale del nostro pianeta e permette di risalire a informazioni di secoli e millenni addietro relative a temperature, eruzioni vulcaniche e anche incendi.
“Analizzare i composti chimici presenti nelle carote di ghiaccio prelevate in aree polari aiuta a ricostruire aspetti climatici ed eventi atmosferici del passato”, conferma Andrea Spolaor, ricercatore del Cnr-Isp. “In questo caso parliamo di composti quali black carbon, ammonio e levoglucosano, emessi durante la combustione di biomasse. Misurando questi traccianti abbiamo scoperto che nell’alto Nord Atlantico, che comprende le coste Nord-Est, Sud-Est e Sud-Ovest della Groenlandia e l’Islanda, oltre 4.500 anni fa si sono verificati dei cali di incendi grazie a una diminuzione dell’insolazione estiva, con conseguente avanzare dei ghiacciai e diradarsi della vegetazione”.
I ricercatori hanno esaminato la carota di ghiaccio Recap (Renland ice cap) presso l’Università Ca’ Foscari Venezia, l’Istituto di scienze polari del Cnr e il Centre for Ice and Climate di Copenaghen.
“I fattori climatici che più influenzano gli incendi sono le temperature, l’insolazione estiva, le precipitazioni e l’umidità, accompagnate da quantità e tipo di vegetazione”, prosegue Delia Segato, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari Venezia. “Se la vegetazione è densa, infatti, nel caso d’innesco di un incendio, questo durerà più a lungo per maggiore disponibilità di combustibile da bruciare”.
Secondo lo studio un’altra ragione per la quale oltre 1.100 anni fa si è verificato nell’alto Nord Atlantico un calo degli incendi, oltre a quella climatica, è di origine antropica.
“La diminuzione osservata in questo periodo è effetto della perdita di vegetazione nel territorio islandese”, precisano i ricercatori. “La colonizzazione vichinga dell’Islanda ha provocato uno dei primi disastri ambientali della storia e ancora oggi, dopo un millennio, le foreste islandesi non l’hanno totalmente recuperato. I vichinghi deforestarono in modo estensivo, con la perdita di più del 25% della vegetazione in meno di un secolo. I coloni, seguendo gli usi delle terre d’origine, tagliavano i boschi di betulle per ottenere legna e rimuovevano gli arbusti per aprire terreni da pascolo”.
L’impatto antropico nell’alto Nord Atlantico non si è certo arrestato in epoca storica.
“Nei due secoli più recenti abbiamo rilevato che il segnale degli incendi si è intensificato a causa del cambiamento climatico e per le emissioni causate dall’uomo”, concludono i ricercatori.
“I risultati dello studio mostrano che le regioni ad estreme latitudini costituiscono uno dei luoghi della Terra dove il cambiamento climatico sta avendo gli effetti più catastrofici. Solo a fine estate 2020 gli incendi nel Circolo Polare Artico hanno comportato l’emissione di 244 mega tonnellate di CO2, superando del 35% quelle del 2019. In queste zone è dunque essenziale migliorare la comprensione del clima e del regime degli incendi nel passato”.
FONTE : Istituto di scienze polari del Cnr (Cnr-Isp), Università Ca’Foscari Venezia e Ufficio Stampa CNR, Roma