Roma, 03.02.2019 – Apertura del concerto con Antonio Pappano alla testa dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, ed eccoci a Vienna, una città che vide operare contemporaneamente Gustav Klimt, Schönberg, Alban Berg e Webern, accomunati da un uguale amore per le indagini oniriche e per le astrazioni matematiche che avrebbero avuto sbocchi anche negli aforismi di Wittigenstein, di Karl Krauss, e nell’Elektra di Hoffmannstahl, con la sofferenza fisica della parola. Il precetto era la razionalità, rassicurante passaporto per transitare a brevissima scadenza in quegli anni dolorosi, i cui disagi erano espressi dalla musica con più immediatezza.
Era il 1899 quando il ventiquattrenne Schöberg pubblicò Verlackte Nacht (Notte trasfigurata), il suo quarto lavoro come numero d’opus ma il primo di un vero impegno sinfonico, composto inizialmente per sestetto d’archi in sole tre settimane, trascritto per orchestra d’archi nel 1917 e riveduto infine nel 1943.
Si tratta di un poema sinfonico ispirato a una poesia del simbolista Richard Dehmel (1863-1920), nella quale un uomo e una donna vanno di notte per un boschetto invernale spoglio e gelido seguiti dall’occhio vigile della luna. Il loro animo è turbato. Lei confessa di portare in grembo il figlio di un altro uomo, di sentirsi perciò nel peccato. Lui in quella luce azzurrata che trasfigura ogni cosa, rassicura la donna che lo accoglierà come suo, mentre i loro respiri si congiungono in un bacio.
La composizione si snoda in cinque sezioni corrispondenti ai cinque passaggi del poema; la passeggiata notturna, la confessione della donna, “il suo sguardo buio (che) annega nella luce (lunare)”, il perdono amorevole dell’uomo, il bacio finale “nella notte alta, chiara”.
In Verlackte Nacht è presente uno dei ‘miti’ cari all’estetica di Schönberg, la luna, (che sarebbe stato protagonista nel suo capolavoro ‘Pierrot Lunaire’), che c’è e non c’è in una estraniante coincidenza degli opposti. È il pensiero eracliteo che si fa musica, con la luna che diventa terzo personaggio, oltre alla donna e al suo amante, la luna femminile demoniaco, l’occhio di Horus, nella quale si proiettano amori onirici, ma che può rappresentare l’abito ideale per il misticismo erotico e la pietas sentimentale allora così in voga, che Schönberg racconta con concentrazione poetica nello stile del sinfonismo tedesco wagneriano, e segnatamente ‘tristaniano’. E tuttavia c’è già il superamento della tradizione proprio per la grande libertà armonica e per il suo contenuto fortemente cromatico come anche per gli effetti timbrici, modalità che imbarazzarono il mondo musicale viennese, provocando forti dissensi.
Ogni momento della composizione è stato illustrato e reso palpabile dalla regia musicale di Antonio Pappano e salutato alla fine da qualche momento di malia prima dello scatenarsi degli applausi.
Sono documentati i rapporti fra Schönberg e Gershwin, la cui musica occupa la seconda parte del programma ceciliano; si ritrovarono a vivere nello stesso periodo e nello stesso luogo, New York e divennero amici, accomunati non solo dalla musica (i due, ad esempio, erano bravi pittori e amarono ritrarsi reciprocamente), ambedue furono innovatori, Schönberg con un fecondo retroterra, inizia una rivoluzione formale, Gershwin diviene il primo cantore classico della cultura musicale statunitense, partendo dai tracciati sonori di amatissimi compositori come Ravel, Debussy e lo stesso Schönberg, e accogliendo le suggestioni del folklore americano, la ritmica travolgente e quelle note ricche di dinamismo che erano giunte dall’Africa con gli schiavi e si erano diffuse dai campi di cotone.
Così nasce “Rhapsody in blue”, la sigla di Manhattan, del suo vitalismo da quando Woody Allen l’adottò per il suo omonimo film cult, per quell’incipit affidato al clarinetto e il glissando che si inerpicano veloci e sempre più su come una saetta e che sembrano illuminare nel passare la folla dei meravigliosi grattacieli di Manhattan. È il trionfo del jazz, il suo sdoganamento, ed è anche la pagina più amata di tutta la letteratura americana fin dalla sua prima esecuzione all’ Aeolian Hall, il 1 febbraio del 1924, con Paul Whiteman sul podio e lo stesso Gershwin, pronto a sprizzar faville virtuosistiche dal pianoforte.
Quelle stesse che sono divampate nella Sala Grande del Parco della Musica ad opera del prodigioso ventiquattrenne Conrad Tao, anche compositore di successo.
La bacchetta di Pappano ha fatto il resto, trasportando la grande Orchestra di Santa Cecilia. Consensi deliranti nella Sala strapiena, che si sono riproposti con le pagine del celeberrimo musical “Un Americano a Parigi”, di cui tutti ricordano almeno il balletto di Gene Kelly sotto la pioggia nella versione cinematografica.