Accademia di Santa Cecilia – I “Carmina Burana” di Carl Orff chiudono la stagione estiva.

Le donne, il vino, le carte

Era la fine della grande paura, era la voglia di riprendere in mano la vita e inneggiare ad essa attraverso la grande libertà che sola concede la gioventù, era la confusione dopo il caos, il sorriso risplendente dopo il tormento angoscioso, era l’addio a quella data fatidica che qualcuno aveva vaticinato come la fine della terra, ebbene sì, quell’orribile anno Mille era alle spalle con il suo nulla tenebroso e pieno di diavoloni,  e tante prospettive si aprivano e  su tutte dominava il sentimento della libertà e la voglia di proclamar il piacere come sovrano del mondo. Pronti a raccogliere il testimone del nuovo che avanza a gran passi, armati della spada scintillante dell’ottimismo, decisi a conquistare l’Europa, migliaia di giovani smaniavano per le strade e le città, accomunati dalla stessa voglia di vino, donne, carte. Erano i clerici vagantes, i “goliardi”, seguaci del mitico vescovo Golia, che di corte in corte diffondevano i precetti del nuovo, in una allegra e continua contaminazione; spezzata definitivamente la filiazione dal latino, questi diffusori delle lingue romanze cantavano presso corti ed osterie la gioia della gioventù, creando quel processo di allargamento linguistico che spezzava le barriere e sdoganava un concetto ancora in nuce di spirito europeo. Qualcuno, precisamente Johannes Andreas Schmeller nel 1847, rielabora e riunisce in una silloge, i “Carmina Burana”, appunto, un corpus di testi poetici medievali dell’IX e XII secolo prevalentemente in latino,  antichi monumenti linguistici, che si erano salvati in un importante manoscritto contenuto in un codice miniato del XIII secolo, il Codex Latinus Monacensis 4550 o Codex Buranus, proveniente dal convento di Benedikben(l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata attorno al 740 da San Bonifacio nei pressi di Bad Tölz in Baviera. Oggi, il codice è custodito nella Bayerische Staatsbibliothek di  Monaco

I testi in tedesco antico, come in latino frammisto a lemmi volgari, sono farciti di notazioni morali e didattiche, come si  conveniva all’epoca, mentre lo spirito religioso viene spinto al margine da istanze amorose trasgressive che esaltano il profano e licenzioso, in libera circolazione nelle nascenti università. La libertà interpretativa che consentiva la mancanza di   notazione musicale originarie, venne ridotta e poi annullata dal lavoro scrupoloso e creativo di Carl Orff, che nel 1937   cercò   una sonorità che “sembrasse” il più medievale possibile. Ecco quindi nati i “Carmina Burana”, scelti come chiusura della stagione dall’Orchestra e dal Coro di Santa Cecilia, diretti con gran maestria da Ciro Visco.  Il maestro è parso particolarmente attento a modulare i momenti più lievi e gioiosi, con gli altri forti e quasi drammatici, l’accesa sensualità,   in una continua alternanza di suoni dinamizzanti, che profumano di antico. Perché, ribadiamo, i Carmina sono un’opera prettamente “di finzione”, “à la manière de”, ma il prodotto finito divenne un  artistico  capolavoro senza tempo, che ha riscosso e continua a riscuotere ancora oggi il favore del pubblico ovunque venga proposto.  Se di imprestiti si deve parlare, ecco la rivisitazione del canto gregoriano con effetto parodico, ecco la canzone strofica medievale, il madrigalismo rinascimentale, ecco il massiccio uso delle percussioni che segnano una ritmica spesso ossessiva, che si configura a volte come un rap, ecco il canto corale, ecco la crudezza comica-epica del cigno allo spiedo che inneggia il proprio rimpianto con le note sgargianti di un sopranista. Qui, Marco Santarelli, bravissimo. La vita umana, cantano i chierici, è davvero nelle    mani di forze oscure e potentissime, la rotta di ogni esistenza è nel giro folle della ruota che regola le leggi immutabili e incoercibili del cambiamento. La Fortuna, imperatrice del mondo, può dare inizio al gran gioco o arrestarlo secondo i suoi misteriosi piani. Ed è proprio ad essa, sia che celi  Venere, la dea dell’amore o che occulti  la divina madre che Orff affida il compito di chiudere a cerchio la composizione. I Carmina vengono spesso proposti in una versione per due pianoforti e percussioni, ma l’impegno della grande orchestra ceciliana e del coro al gran completo, rinforzato dalle voci bianche e l’ altissima qualità della loro esibizione hanno fatto del programma un vero evento che coinvolge in un unicum le voci bellissime del soprano Maria Chiara Chizzoni, dai mezzi straordinari, voce sempre morbida, strette frequentazioni con le regioni più acute del pentagramma, eleganza e duttilità ( Davvero augurabile risentirla presto), del baritono Massimo Simeoli e del già citato Marco Santarelli.

 

 

 

 

 

 

 

 

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