Accademia di Santa Cecilia: Petruska di Stravinsky e Aleksander Nevskij di Prokofiev diretti da Daniele Gatti

L’infelice Petruska e l’eroico Nevskij

Roma, 24 febbraio 2020 – Li, sul palco della Sala grande del Parco della Musica, arrivano con la fiaba lui, Petruska, e i suoi colori puntuti e violenti, mentre la Piazza dell’Ammiragliato di San Pietroburgo onora la settimana grassa del 1830, consapevole che l’attendono i giorni della Quaresima e i suoi digiuni. Ma ora c’è tutto il popolo in festa, ballerini di strada, comari, suonatori d’organetti con orsi bruni tenuti a catenella, zingarelle pronte a svelare la ventura e questurini a mantener l’ordine quando con un poderoso rullo di tamburi arriva Ciarlatano con il carro magico del suo teatro di burattini. Il flauto vibra allora in alto la sua nota acuta e subito s’alza il sipario, lasciando scoprire Petruska, la Ballerina e il Moro. Che prendono vita e sentimenti umani, saltano, si rincorrono fuori dal carro, ballano una vivace danza fra il pubblico stupefatto.
Ma quando l’ultima nota si spegne, colui che ha dato loro l’anima musicale, Stravinsky, colui che ha svelato con le sue sonorità aspre il dramma di Petruška, la sua lotta con il Moro nella contesa per l’amore di Ballerina, e la sua fine e rinascita come spettro immortale, sono ormai parte del corredo espressivo della musica di tutti i tempi, quella che sa dare vita al mondo fantastico e alla sua rappresentazione (reale) su un palcoscenico, la stessa consistenza, che può diventare balletto di rara bellezza dove suoni e colori e danza e pantomima coesistono.
Già da allora, nel lontano 1910 quando Stravinsky era impegnato nella stesura del suo capolavoro “La Sacre du Printemps” (La consacrazione della primavera), quasi per caso, ma sotto comunque l’urgenza creativa, compose quel pezzo per pianoforte e orchestra mentre la mente divagava sulla folla variopinta di un mercato nei giorni di festa e i suoi pittoreschi personaggi, come l’infelice burattino, Petruska, ucciso dal Moro, con un fendente che lascia uscir fuori la sua anima di segatura, e torna poi a vivere come spettro perché non si uccidono le fiabe.
Quando Djailev, il celebre impresario ( che avrebbe di lì a poco creato “I Ballets russes”) ascoltò il brano, volle a tutti i costi utilizzarlo per un nuovo balletto che fu battezzato poi con le scene del pittore Alexandre Benoit, con Vaslav Nijnskij che poté mettere in luce le sue magistrali doti interpretative e drammatiche nel ruolo del titolo.
La musica nuova, trovava il cammino del successo: era il linguaggio che spazzava d’un colpo tutte le tinte delicate romantiche e impressionistiche per tingersi di colori squillanti, che giocava sulle dissonanze, sull’uso di una ritmica vigorosa e serrata, su un caleidoscopio di motivi, su accenni di danze popolari (Danza delle balie, Il contadino con l’orso, Il mercante gioviale con le due zingare), come di valzer (è rielaborato un valzer di Josef Lanner), su canzonette da strada.

Rappresentata per la prima volta a Parigi il 13 giugno del 1911, con la conduzione di Pierre Monteux e la coreografia di Fokine, la partitura di Stavinsky, nella sua versione sinfonica sconvolgente per la carica ritmica d’inusitata potenza, si avviò rapidamente verso il cielo alto dei capolavori di tutti i tempi.
La Cantata per mezzosoprano, coro e orchestra. “Aleksander Nevskij” nasce dalla rielaborazione di un brano composto da Sergei Prokofiev nel 1938 come colonna sonora per l’omonimo film del regista sovietico Sergej Ėjzenštejn (autore della “Corazza Potemkjin”). Aleksander Nevskij, granduca di Novgorod fu il condottiero eletto dal popolo a capo delle forze militari russe che riuscì ad arginare l’invasione dell’esercito svedese nella mitica battaglia sul fiume Neva (che gli valse il soprannome Nevskij), che vinse la “battaglia del lago ghiacciato” due anni dopo, nel 1242, presso le sponde del lago di Peipus, nel territorio di Psikov, ai confini dell’Estonia quando diede ordine ai suoi soldati di spogliarsi delle proprie armature mentre i nemici, i Cavalieri teutonici, bardati di pesanti vestimenta metalliche sprofondavano inesorabilmente nel ghiaccio che non poteva reggere il loro peso. Per motivi politici, il film fu ritirato nel 1939, ma la Cantata rimase, adottata dalla propaganda stalinista come testimonianza di musica patriottica. L’opera mostra le due nature della musica di Prokofiev, quella piena di ritmi e di sonorità aggressive e roboanti, usata per raccontare i cavalieri crociati, e quella con melopee popolari, destinata a illustrare il popolo russo, i due sentieri sonori sono fusi in un unico linguaggio che ha una vibrante presa emozionale sul pubblico.

La Cantata, per mezzosoprano (qui, l’intensa Ekaterina Semenchuk), Coro (educato da Piero Monti) e Orchestra, si articola in sette movimenti che seguono l’ordine degli eventi narrati dal film del geniale regista sovietico (maestro nelle scene di massa). Grande e immediato fu il successo incontrato dal brano per la potenza rievocativa che gli permette di vivere svincolato dalle immagini filmiche, per la robustezza del suono, ma anche per la bellezza melodica del canto del mezzosoprano che richiama le impressioni sul Campo della morte.

Daniele Gatti, sul podio dell’Orchestra di Santa Cecilia in grande spolvero, ha offerto il carico della sua lunga esperienza per trovare i colori sfarzosi e regalare al pubblico una carica di dinamismo e di vigore davvero apprezzati in un momento storico difficile come quello attuale con l’incubo del coronavirus che sta colonizzando l’Italia intera.

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