Roma, 25 marzo 2019 – Semyon Bychkov accompagnato dalle sorelle Labèque presenta il programma settimanale dell’Accademia di Santa Cecilia imperniato su due autori: Max Bruch e Franz Schubert, con un destino comune fra loro, ambedue possono essere considerati musicisti tardo romantici e le opere scelte per lo spettacolo sono state ritrovate casualmente dopo un lungo periodo di silenzio.
Il tedesco Max Bruch, compositore, direttore d’orchestra-e valente pianista, aveva conquistato larga fama per il celebre Concerto per violino e Orchestra, un brano che dal 1868 aveva attinto le vette di un successo mondiale. Durante un viaggio a Baltimora, avuto modo di apprezzare il talento delle sorelle Rose e Ottilie Sutro, decise di comporre e dedicar loro un brano. Era il 1911, l’anno successivo il Concerto per due pianoforti e orchestra era pronto. Ma il suo debutto avvenne solo nel 1916 a Philadelphia con le sorelle Sutro alle tastiere e Leopold Stokowski sul podio. L’avventura di quest’opera, però, è solo agli inizi, perché le pianiste apportano tali modifiche sia agli spartiti che alla partitura che il compositore ne consente l’esecuzione così modificata solo negli USA. E poi cala il silenzio: nel 1920 muore Bruch, il concerto non viene più eseguito e non ne esistono registrazioni. Decenni dopo, nel 1971, muore Ottilie, l’ultima delle sorelle pianiste, con la conseguenza che le sue carte, compresa la versione del concerto di Bruch modificata, vengono vendute all’asta. Le acquisisce un musicista che si appassiona alle vicende dell’opera e riesce pian piano a ricostruirne la partitura originale che viene per la prima volta registrata con la London Simphony Orchestra dalle sorelle Labèque dirette da Semyon Bychkov. Gli stessi interpreti che è possibile apprezzare oggi nel programma ceciliano e che non esitano a definire ‘romantico’ il brano che, in verità, si può agevolmente considerare un esempio di tardo romanticismo tedesco con pagine di vigoroso impeto che esplodono nell’incipit solistico ripreso dall’intera orchestra, altre connotate da momenti di raccoglimento, fino all’esplosione di un entusiastico finale.
L’interesse verso un lavoro di dimensioni ampie ed ambiziose, che potesse stare a confronto con le ultime opere di Beethoven, affrancandosene nel contempo, impegnò Schubert fra il 1825 e il ‘28 ‘nella composizione dalla IX° Sinfonia in do maggiore, la “Grande, suo ultimo lavoro, considerato perduto e ritrovato da Schumann nel 1839, undici anni dopo la morte del compositore fra le sue carte custodite dal fratello. La colossale opera, battezzata il 21 marzo di quell’anno a Lipsia sotto la direzione di Mendelssohn, rappresenta per l’ampliamento dell’organico e delle dimensioni (quasi un’ora di “divina lunghezza”, come scriveva Schumann), e per il superamento della dialettica fra elementi contrapposti sostituito da intense relazioni fra i temi ritmici, una sorta di ponte lanciato verso il sinfonismo tardo romantico. Le caratteristiche fondamentali dell’opera rispondono alla poetica di Schubert, al lirismo e alla grazia delle sue impareggiabili melodie, alla luminosità dei suoi temi. alla limpidezza della scrittura musicale come anche agli accenti vigorosi delle esplosioni dinamiche.