Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Gustavo Dudamel dirige Beethoven
Tifo da stadio per il divo della bacchetta
L’eccellenza musicale a Santa Cecilia con il ritorno di Gustavo Dudamel, a completamento di una brillante stagione che ha visto sul palcoscenico della Sala Grande del Parco della Musica una sfilata di bacchette da primato, a cominciare dall’ineguagliabile trio: Antonio Pappano, direttore principale, Mikko Franck, direttore ospite principale e Juri Temirkanov, direttore onorario della nostra maggiore orchestra sinfonica.
Merito certamente delle capacità artistiche e imprenditoriali di Michele Dall’Ongaro, Sovrintendente e Direttore Artistico dell’Accademia, che ha saputo offrire al suo pubblico sempre più numeroso e partecipe, il gotha degli artisti mondiali, con punte di sfavillante qualità come Kirill Petrenko, dal prossimo mese alla guida dei Berliner Philharmoniker, e ora Gustavo Dudamel, che con la formazione ceciliana aveva condotto, appena venticinquenne nel 2005, un’epica edizione della IX° di Beethoven davanti al pubblico estivo della Cavea rapito dall’energia, dalla precisione, dall’empatia fra il giovanissimo direttore e l’orchestra, dalla corrente di simpatia e d’amore subito accesi con gli spettatori, arresi in maniera incondizionata alla magia del suo sorriso e della sua interpretazione intensa e matura.
Gustavo mancava da Roma dal 2013. E in questi anni il ragazzetto piccolo e intenso è diventato un numero uno nel mondo, portando avanti una carriera luminosa che si esprime a trecentosessanta gradi e, partendo della musica, allarga il suo orizzonte anche al sociale, memore di “El sistema”, esperimento del maestro Antonio Abreu”, di cui è testimone nel mondo.
Gustavo è stato la stella più fulgida degli oltre trecentocinquanta mila ragazzi venezuelani, cui il maestro aveva posto fra le mani uno strumento, spesso sottraendoli agli allettamenti e ai pericoli delle strade di Caracas, forte della convinzione dell’importanza fondamentale dell’arte per lo sviluppo umano e sociale. Dopo aver cominciato la carriera direttoriale ad appena diciannove anni con l’orchestra Bolivar, nata dal lavoro di Abreu, Gustavo Dudamel, ormai trentottenne, è ben lanciato nel firmamento internazionale, da dieci anni dirige la Los Angeles Philharmonic Orchestra, divenuta con la sua guida una delle principali orchestre del mondo, apprezzata anche per una serie di progetti innovativi, quegli stessi che motivano Gustavo, che gli fanno infrangere le barriere dei generi, che lo inducono a fondare orchestre giovanili, che lo convincono a partecipare a programmi televisivi assieme a pop star come Beyoncé o i Coldplay, seguito da folle deliranti, una fama meritata che gli è valsa nel 2017 la conduzione del concerto di Capodanno dei Wiener Philharmoniker.
Oggi viene accolto dal pubblico romano con un calore e una partecipazione calorosissimi fin dal momento dell’ ingresso in palcoscenico con il frak impeccabile e l’aureola dei capelli ricci ad incorniciargli il volto sorridente, lo stesso pubblico che ha seguito i tre momenti del programma monografico dedicato a Beethoven con un insolito silenzio, persino negli intervalli fra i vari tempi, durante i quali non si sono sentiti i temibili colpi di tosse. E ancora quel pubblico che si scatena in applausi ritmati per oltre dieci minuti, in numerose richieste di bis, in standing ovation al termine dell’esibizione, appagato dallo splendore dei suoni orchestrali suscitati dal gesto brioso del direttore, dalla bellezza e dalla profondità della sua interpretazione, dalla cura minuziosa con la quale ha sostenuto le caratteristiche delle tre opere in programma: l’ouverture dall’”Egmont e le due Sinfonie: la Quarta e la Settima.
Nell’”Egmont”, ouverture del 1809 suscitata dall’omonimo dramma di Goethe, si riflettono gli appassionati aneliti di libertà del personaggio che si sublimano poi in un canto di giubilo.
Seconda tappa del percorso beethoveniano con la fine tessitura della Quarta Sinfonia, opera del 1806 all’insegna della gioia, della serenità, dalla quiete interiore, ma anche animata da frizzi umoristici quando il fagotto gioca il suo suono, che si esalta nella ritmica ribollente, nei momenti contrappuntistici del terzo movimento e che si chiude nel finale con una tavolozza di colori lieti e tersi.
Con la Settima eccoci nella “apoteosi della danza”, come ebbe a definirla Wagner, che non vuol essere solo una danza spensierata ma raccontare tutte quelle passioni umane e sociali che l’epoca, quel 1812 che vede l’Europa intera in fermento per la presenza degli eserciti napoleonici, può suggerire. Dudamel ha saputo sottolineare con una cura perfetta della dinamica orchestrale, il clima esaltante dell’opera scatenando l’orchestra fino alla clausola finale in un delirio di suoni eccitanti, quei suoni che avevano portato Mahler che la dirigeva nel 1899, a parlare di effetto dionisiaco sui presenti.