Il dolore salvifico
Figlia della regola “del silenzio”, che si era autoimposto, la magnifica “sequenza liturgica” dello Stabat Mater, proposta dall’Accademia di Santa Cecilia per la bacchetta di Nicola Luisotti, è uno dei momenti più significativi, anche per le vaste proporzioni, per il linguaggio armonico, l’orchestrazione ricercata, la grandiosità delle parti soliste e il poderoso coro impiegato, del Rossini già pensionato, la composizione adulta di un musicista che aveva deciso di ritirarsi ad appena trentasette anni a vita privata e dedicarsi ad uno dei suoi passatempi preferiti: vivere, ovvero godersi le ricchezze, i buoni cibi, la gloria, la felicità che gli assicurava la seconda moglie Olympe Pelissier, colei che lo aveva sottratto dall’abisso tetragono di una depressione difficilmente immaginabile in un re del buonumore com’era il pesarese. Non è che il compositore posasse definitivamente la matita e abbandonasse del tutto il rigo musicale, piuttosto si dilettava a far eseguire per gli amici lavoretti privati, che voleva rimanessero tali, e perciò inediti.
La genesi dello Stabat Mater ha qualcosa di ineluttabile e curioso, e si caratterizza anche per l’insolita durata della sua elaborazione, che va dal 1831 al 1842. Durante un viaggio in Spagna, nel 1831 appunto, Rossini si lasciò convincere a musicare uno Stabat per la cappella privata del cardinale Don Manuel Fernandez Varela. Il testo della celebre sequenza, attribuito a Jacopone da Todi, fu suddiviso in dodici parti. Rossini nell’anno successivo ne musicò solo sei, pregò poi l’amico Giovanni Tebaldini di musicare i restanti, urgevano i problemi nervosi che lo angustiavano ormai da tempo e rendevano difficoltosa la concentrazione creativa. Questo Stabat Mater a quattro mani fu rappresentato a Madrid nel 1833.
Alla morte del cardinale, i suoi eredi vendettero il manoscritto all’editore Aulangnier, ma quando Rossini ne fu informato, decise di riprendere in mano il manoscritto e arrivò ad intentare causa all’editore perché non venisse pubblicata la partitura precedente. L’opera definitiva fu poi presentata pubblicamente alla Salle Ventadour di Parigi nel 1842, con protagonisti straordinari , fra i quali la celebrata Giulia Grisi e riscosse un successo strepitoso. Lo stesso che si poté riscontrare alla prima italiana che avvenne a Bologna con Gaetano Donizetti sul podio. Dopo tredici anni di silenzio, Rossini tornava a trionfare con un lavoro di grande impegno che alterna pagine in stile “severo” contrappuntistico che traeva radici da Palestrina ad altre “profane” e di gusto teatrale, conservando tuttavia grande coerenza.
Persino mettere insieme lo staff di voci per presentare lo Stabat Mater di Rossini può essere un’impresa; quel che occorre è un quartetto di solisti che raggiungano l’eccellenza sia per intrinseche doti vocali, sia per temperamento, per abilità nel ritrovare gli accenti e quelle cifre musicali tipicamente rossiniane che sono come un arco verso lo stile del canto lirico ottocentesco. Nell’edizione ceciliana, sotto la guida di Nicola Luisotti si sono esibiti Erika Grimaldi, grande voce morbida dalla notevole espansione sopranile negli acuti e dall’armonioso registro centrale, semplicemente splendida nell’”inflammatus”, il tenore Antonio Siragusa dalla voce limpida e cristallina che ha saputo affrontare con disinvoltura l’impennata vocale del re bemolle acuto nella cadenza del “Cujus animam gementem”, senza rischiare il falsetto. Varduhi Abrahamyan, mezzosoprano bulgaro, si è distinta per nobiltà di accenti nella cavatina “Fac ut portem” , dopo avere assolto egregiamente il ruolo di seconda voce (secondo la classificazione di Rossini che non usava il termine di “mezzosoprano”) in “Qui est homo” con gli straordinari momenti belcantistici. Ottimo, infine, Ildebrando D’Arcangelo dalla voce ampia e profonda. Le quattro voci, singolarmente assai preziose, hanno dato vita in “Quando corpus” ad un momento di estatica bellezza. Una menzione particolare merita il coro educato da Ciro Visco, che ha saputo suscitare momenti di riflessione quasi estatica, sotto la guida eccellente di Nicola Luisotti che ha sottolineato il carattere teatrale di questa riflessione religiosa con impeto ma anche i momenti più intimi e spirituali ispirati ad una riflessione dolente del mistero del dolore e della morte.
Il programma era anticipato da una bella esecuzione della Sinfonia “Praga “ di Mozart.