Roma, 11 gennaio 2021 – Da ventidue anni l’11 gennaio è una brutta data.
Perché in questo giorno, nel 1999, perdevamo uno dei cantautori più illuminati della nostra epoca: Fabrizio de André. O semplicemente “Faber”.
Faceva freddo anche allora. Come oggi. Come in genere sempre avviene a gennaio.
Le feste se ne erano andate da poco. Come oggi, ovviamente. E gli anni duemila erano di là da venire. Mancava poco meno di un anno e … oplà. Saremmo entrati nel nuovo secolo.
Ma Faber non sarebbe venuto con noi. Di lui, però, ci sarebbero rimaste le canzoni.
Che poi, definirle semplicemente così, “canzoni”, è anche riduttivo.
Opere d’arte, sarebbe meglio dire. Riflessioni colte sul bello e sul brutto che c’è nella vita e nel mondo che ci circonda.
Sulle “bocche di rosa” e sui “Don Raffae’” che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino.
Sulle “Vie del Campo” e sui “campi di papaveri rossi” dove abbiamo camminato.
Sui “gorilla” e sui “giudici” che abbiamo conosciuto. Magari in qualche “domenica delle salme” che abbiamo vissuto.
Pensieri sparsi e messi in musica di un uomo libero. Che non ha smesso di credere nella libertà di pensiero neppure quando è stato imprigionato, insieme alla sua dolce Dori, nell’Hotel Supramonte.
De André è insieme Genova e la Sardegna. E’ il rosso e il blu delle maglie, forse non per caso uguali, delle due squadre che le rappresentano.
L’amato Genoa, eredità di una passione giovanile mai sopita. E quel Cagliari di “Giggirriva” che lui ben conosceva.
Anche se quando i due miti si incontravano (ogni tanto capitava, sull’isola) le parole uscivano con il contagocce.
De Andrè è anche quel volto disegnato su una bella bandiera che sventolano in Gradinata Nord i tifosi del Genoa e che vedete nella foto allegata. Perché loro, come noi, non lo hanno mai dimenticato e mai lo dimenticheranno.
De André è la “crêuza de mä” da percorrere per trovare lo scopo delle nostre vite.
Sempre così sospese tra la concretezza della terra e l’infinito del mare.